A chi appartiene Dietrich Bonhoeffer?
Il pensiero del teologo ucciso dai nazisti nel 1945 piegato di volta in volta ad interessi di parte
La storia non è nuova né solo americana, ma ovviamente acquisisce particolare slancio in fasi infuocate dello scontro politico, come quello che in queste ore pone gli Stati Uniti di fronte a una scelta che avrà enormi conseguenze planetarie. Da parte di ampi settori religiosi di orientamento conservatore, e oggi sostenitori di Donald Trump (e dei suoi soci sulla scena globale, dalla Russia all’Ungheria, dalla Germania all’Italia), si rivendica l’eredità di Dietrich Bonhoeffer: il teologo ucciso dai nazisti nell’aprile 1945 diviene cioè una sorta di testimonial del neoconservatorismo cristiano, profeta della “guerra al terrorismo”, delle tesi “pro life”, della “famiglia naturale” eccetera (lo raccontavamo qui, Ndr.)..
Il fenomeno stupisce chi è abituato a considerare Bonhoeffer antesignano di ogni sorta di “progressismo” teologico. In effetti, il mondo evangelical, ma anche molto cristianesimo detto (impropriamente ormai, visto che è minoritario) “main stream”, sia cattolico sia protestante, ha sospettato a lungo il pensiero bonhoefferiano di essere eversivo, a motivo di alcune tesi abbozzate, assai velocemente, nelle lettere inviate dal carcere, specie in quelle dell’estate 1944. Da decenni, tuttavia, è in corso, a partire dagli Usa, ma con un’espansione a macchia d’olio, una riscoperta di aspetti del pensiero e della pratica bonhoefferiana di stampo “tradizionale”: esegesi biblica di tipo non storico-critico, difesa del “diritto alla vita” e critica dell’“eutanasia” (quella nazista, che non è esattamente la problematica del fine vita oggi in discussione: ma chi strumentalizza non va troppo per il sottile), esaltazione della civiltà borghese e molto altro. Con un po’ di fantasia, Bonhoeffer diventa un “evangelicale”, o anche un filocattolico di destra. Il manifesto di questa lettura reazionaria di Bonhoeffer è la biografia di Eric Mataxas, tradotta anche in italiano dall’editore Fazi nel 2012, in una collana intitolata «Campo dei Fiori», in quanto riteneva di ispirarsi, niente meno, allo spirito libertario di Giordano Bruno. Storico sostenitore di Trump, Metaxas saccheggia la biografia fondamentale di Bonhoeffer, dovuta a Eberhard Bethge, ma propone un ritratto diverso e stravagante, immediatamente stroncato da tutta la critica seria.
Curiosamente, un’operazione speculare a quella di questi reazionari viene condotta “da sinistra”, accusando il teologo di non essere un teorico della democrazia liberale, di non essere femminista (anzi: un pericoloso fallocrate) e di avere abbandonato, nell’ultima fase della vita, il pacifismo degli anni Trenta. Negli ultimi decenni, quest’uomo, finito in galera perché coinvolto nel tentativo, riuscito, di far espatriare un gruppo di ebrei (la sua partecipazione alla congiura è stata scoperta solo alla fine dell’estate 1944) è costantemente accusato, dalla teologia, anche cristiana, detta “post-Olocausto”, di essere più o meno antisemita. La qualifica di «Giusto tra le nazioni» gli è stata negata, mentre è stata riconosciuta a suo cognato Hans von Dohnanyi, arrestato e ucciso esattamente per le stesse ragioni fatali al teologo.
La verità, naturalmente, è che Dietrich Bonhoeffer è un uomo del proprio tempo: geniale, originale, indubbiamente coraggioso, profondamente immerso nel cristianesimo tedesco e protestante degli anni Trenta, con la sua grande tradizione spirituale, teologica, musicale, ma anche con i suoi pesantissimi condizionamenti. Troppo spesso chi, come chi scrive, si considera appassionato di questo autore, cede alla tentazione di farne un cavaliere senza macchia e senza paura, anticipatore di tutte le idee fascinose con le quali amiamo identificarci. La strumentalizzazione reazionaria delle idee di Bonhoeffer, così come la critica disperatamente banale e anacronistica proveniente da “sinistra”, potrebbero anche essere viste come un monito per chi è esposto alla tentazione di mitizzarlo. Bonhoeffer non è un brand del quale appropriarsi, bensì un classico da leggere criticamente: con ammirazione, perché no?, ma senza sottrarlo alle ambiguità della storia e dell’umano. La mistificazione di destra, poi, non merita nemmeno una contestazione puntuale: basta lasciare da parte Metaxas e i suoi epigoni e rileggere, ancora una volta, le fascinose pagine nelle quali il teologo ci parla, in modo inconfondibile, del Signore per il quale è vissuto ed è morto.