Una legge insicura che colpevolizza le fasce più deboli della società

Il “decreto sicurezza” poggia sulla convinzione che l’inasprimento delle pene faccia calare i reati. Il rischio, legato alla riduzione dello stato sociale, è che chi è ai margini si trovi sempre più escluso

 

La sicurezza è ormai diventata la parola chiave delle politiche di tutti i paesi del mondo. Un tempo indicava la sollecitudine dello Stato verso le persone esposte ai rischi del lavoro, della salute, della vecchiaia e dei più fragili. Oggi si confonde con l’ordine pubblico, indica nemici da cui difendersi e sceglie come strumenti non più la cura e la protezione ma solo interventi di polizia e pene elevate. Il 18 settembre 2024 la Camera ha approvato un disegno di legge in materia di sicurezza pubblica che ora è in discussione al Senato. Le Commissioni Affari costituzionali e Giustizia stanno procedendo a una serie di audizioni di magistrati, avvocati e docenti universitari.

 

Alla base di questo disegno di legge c’è la convinzione che più sono severe le pene più diminuiscono i reati. Così vengono aumentate le pene per la truffa (fino a 6 anni di reclusione), per l’accattonaggio (fino a 5 anni), per i reati commessi in danno delle forze dell’ordine (fino a 16 anni per lesioni gravissime); si creano nuovi reati come il blocco stradale e ferroviario che, prima, erano solo illeciti amministrativi; in caso di rivolta in un istituto penitenziario o in un Centro per immigrati irregolari (Cpr) viene punita anche la resistenza passiva. Le donne incinte o madri di bambini fino a tre anni potranno finire in carcere mentre oggi è previsto un rinvio obbligatorio della pena. A tutti gli agenti di pubblica sicurezza (circa 300.000) viene estesa l’autorizzazione a portare senza licenza armi private diverse da quella di ordinanza e, in generale, viene rafforzata la tutela legale delle forze dell’ordine e delle forze armate.

 

Gli avvocati penalisti (Unione delle Camere Penali Italiane) hanno deliberato lo stato di agitazione perché ritengono che, nel suo complesso, questo disegno di legge sia illiberale e autoritario con «uno sproporzionato e ingiustificato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi e ai danni dei soggetti più deboli», senza che vi sia alcuna effettiva mancanza di sicurezza dei cittadini. Infatti, come ha osservato un criminologo autorevole, Roberto Cornelli, in occasione della sua audizione in Parlamento, i dati Istat ci informano che l’insicurezza derivante dalla percezione della criminalità è in netta diminuzione negli ultimi cinque anni. Paradossalmente è aumentata in occasione dell’approvazione di leggi sulla sicurezza pubblica o di campagne mediatiche utilizzate per una maggiore visibilità di esponenti politici.

Uno degli aspetti più preoccupanti, peraltro, è la maggiore disponibilità di armi private per agenti e ufficiali di pubblica sicurezza, preludio a un incremento di richieste da parte di civili quando, purtroppo, le ricerche a livello mondiale dimostrano l’esistenza di un rapporto direttamente proporzionale tra aumento di armi in possesso di civili e tassi di omicidio.

 

Se si pensa che è stato appena abrogato l’abuso d’ufficio e se si considera che nelle carceri sovraffollate prevale l’umanità più emarginata, si comprende bene il senso della formula “a minor Stato sociale corrisponde più Stato penale”. L’umanità presa di mira da queste misure di sicurezza è quella dei perdenti nella competizione sociale. L’impiego della sicurezza pubblica per coltivare l’allarme sociale a fini elettorali è del tutto trasversale agli schieramenti politici. Tuttavia, negli ultimi due anni la popolazione detenuta registra una crescita inedita: +2062 nel 2022 e +3970 nel 2023 e, come rilevato da Riforma (7 ottobre) nell’intervista a Susanna Marietti, un aumento del 50% dei detenuti nelle carceri minorili calcolato a partire dall’insediamento dell’attuale governo. Inoltre, il testo del disegno di legge, come ha osservato il costituzionalista Marco Ruotolo, presenta diversi profili contrari a Costituzione.

 

Innanzitutto, è in contrasto con il principio di proporzionalità, costantemente ribadito dalla Corte costituzionale: a esempio, prevedere il divieto di poter diminuire la pena in presenza di circostanze attenuanti, quando il reato di resistenza è commesso contro un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, contrasta con il principio secondo cui la pena deve essere sempre calibrata in ragione delle conseguenze del fatto, del grado di volontarietà e di colpa e, non da ultimo, dei motivi dell’agire. La pena – dice la nostra Costituzione – deve essere il più possibile individualizzata.

 

Ma, personalmente, ritengo che l’aspetto più deteriore di questo disegno di legge sia rappresentato dalla violazione di due principi fondamentali: di umanizzazione della pena e del migliore interesse del minore. Se sarà data la possibilità che un essere vivente possa trascorrere i primi mesi di vita, quando ancora è nel grembo della madre, e fino al compimento del terzo anno in carcere, vedremo realizzato il più crudele significato di sicurezza, calpestando un principio non negoziabile. La pena sofferta dal cucciolo dell’uomo non sarebbe solo in contrasto con il principio di personalità che appare fin dall’alba della civiltà («Il figliolo non porterà l’iniquità del padre, né il padre porterà l’iniquità del figliolo», Ezechiele 18, 20) ma istituirà un potere dello Stato di corrompere irreversibilmente, fin dal suo nascere, l’aspirazione a una vita dignitosa.

 

Le lancette dell’orologio della storia ci stanno riportando al Cinquecento quando i nascenti Stati europei concentrarono le loro leggi criminali contro mendicanti, vagabondi, zingari, oziosi e ciarlatani. Fu l’origine del carcere: così ci ha insegnato Michel Foucault. Ma, oggi, dove stiamo andando? Purtroppo, chi scrive queste leggi è il primo a non saperlo.

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