Caso e umanità nelle opere di Paul Auster
Autore di romanzi e saggi, lo scrittore newyorchese è scomparso il 30 aprile all’età di 77 anni
Per capire quanto potrà pesare nel panorama letterario l’opera di Paul Auster, morto due giorni fa a New York, si può evocare uno degli apologhi inseriti nella sua opera. Nella sceneggiatura del film Smoke (1995) uno dei protagonisti racconta all’altro come sia possibile “pesare il fumo”. Prima di fumare un sigaro, lo si pesa; poi si mette sul piatto della bilancia tutta la cenere che viene prodotta dalla combustione, e infine si aggiunge il mozzicone. Sottraendo il peso di cenere e mozzicone al peso iniziale del sigaro, si ottiene… il peso del fumo.
Ecco, nei suoi libri il fumo equivale alla presenza del caso. Impalpabile, evanescente, smaterializzato, refrattario a farsi a prendere fra le mani, eppure decisivo nelle nostre vite. Tutta l’opera dello scrittore di origini ebraico-galiziane per parte di padre, è pervasa dalla presenza di ciò che è aleatorio, senza spiegazioni (vi si può vedere l’influenza di Kafka, uno dei suoi riferimenti insieme, per esempio, a Camus), che tuttavia lascia una traccia, una scia negli eventi.
Perché il caso è certo ingovernabile, ma noi possiamo stare al gioco e, come si dice popolarmente, “cercare di cavalcarlo”. È quanto succede a Daniel Quinn, scrittore di romanzi polizieschi, all’inizio di Città di vetro (1985): suona il telefono nel cuore della notte, e, al suo insonnolito “Pronto?”, uno sconosciuto chiede: parlo con Paul Auster, l’investigatore privato? Una prima volta Quinn risponde logicamente di no; la seconda notte la scena si ripete, e lui non risponde; ma la terza notte, invece di mandare lo sconosciuto a quel paese, Quinn risponde: sì, sono io, cosa posso fare per lei? E da qui in poi, ovviamente, succede di tutto. Assumere un incarico di investigazione senza essere del mestiere, chissà dove può portare…
I personaggi di Auster sono sempre nella necessità di governare il caso e al tempo stesso di costruirsi un’identità: e riflettono – e l’autore riflette con loro, e noi con lui – su come crescere, come far crescere gli altri, come modificare le nostre vite dando loro uno spessore che sembrano non avere, volubili anch’esse come il fumo. Così si può dire de L’invenzione della solitudine (1982), che sarebbe un saggio, ma si legge con un’intensità emotiva degna di un romanzo. Il libro si compone di due lunghe riflessioni, una sulla morte del padre, avvenuta pochi giorni prima; e una sullo smembrarsi della famiglia dello scrittore. Così Auster perde il riferimento del padre, e poi vive nell’ansia di non saper essere riferimento al proprio figlio. Il tema ritornerà in un’opera curiosa come Mr. Vertigo (1994): il protagonista è un orfano che diventerà nientemeno che un “bambino volante” negli Stati Uniti degli anni ’20, di per sé evocativi di crisi economica, rivalità fra bande di gangster, razzismo. Il bisogno di riferimenti si traduce nella consapevolezza di una vita che accetta i propri limiti.
Altre opere sono state definite post-apocalittiche: Il paese delle ultime cose (1996), La musica del caso (1990), Leviatano (1995). Scenari che ricordano le opere del premio Nobel sudafricano J. M. Coetzee oppure Cormac Mc Carthy: da situazioni “estreme” sgorga la capacità di ridestare una rinnovata umanità. Perché Paul Auster, a dispetto degli scenari inquietanti, sa anche riconoscere il meglio che c’è in noi. Sempre in Smoke (film diretto nel 1995 da Auster stesso e da Wayne Wang), inserisce una storia nella storia: Auggie Wren, titolare di una tabaccheria/edicola/emporio a Brooklyn, insegue un ragazzo di colore che gli ha sottratto alcune riviste, e che fuggendo perde il portafogli. Il tabaccaio lo raccoglie: non ci sono soldi, ma c’è un indirizzo, e alcune foto di una vecchietta. È la nonna, che apre la porta a Auggie, credendolo il nipote. Infatti Nonna Ethel è non vedente. Auggie non ha cuore di dirle che non è il nipote; e lei lo sa bene, ma i due proseguono il gioco, e così lei trova, un piccolo argine alla propria solitudine. Auggie scende in rosticceria e le allestisce per lei una vera e propria cena di Natale. Poi, cullata dal Chianti, lei si addormenta, e lui lava i piatti – per la verità, poi, uscendo porta via con sé una macchina fotografica ancora imballata, evidentemente rubata dal nipote. Nessuno è perfetto, ma anche i quasi-perfetti possono fare del bene.
A queste opere sono seguiti molti altri libri: romanzi e testi teorici, saggi, interviste. Spicca il monumentale 4 3 2 1 (2017), che racconta quattro volte in modo diverso la vita di uno stesso personaggio – anche qui, dipende dal caso come vanno le cose; e aggiungerei Qui e ora, scambio epistolare con già citato John M. Coetzee (2014). Ci sarebbe già di che fare un grande. Ma non dimentichiamo che l’opera ultima, Baumgartner (2023), scritto già nella condizione di malattia, trasferisce su un professore di filosofia rimasto vedovo, le riflessioni a cui Auster ci ha abituato: il caso, la possibilità che da esso nascano nuove relazioni, anche con uno sprovveduto ragazzo venuto a leggere il contatore dell’energia elettrica. Una meditazione sul carattere transitorio della vita, una malinconia che ora ha trovato conferma.
Sempre per restare avvinti alla “musica del caso”, Auster è morto a poche settimane dal centenario della scomparsa di Franz Kafka (3 giugno 1924).