Castel Volturno ieri e oggi

Venerdì 5 aprile alla Facoltà pentecostale di Scienze Religiose di Bellizzi (SA) il convegno di studio “Chiese nere, lavoro nero. Chiese e spiritualità della comunità africana a Castel Volturno”

 

«Castel Volturno come metafora italiana del progressivo degrado di un territorio carico di potenzialità. Come luogo emblematico dello sfruttamento della manodopera immigrata, che garantisce cibo sulle nostre tavole e servizi alle nostre imprese. Come modello economico e sociale replicato in altre tappe della catena del lavoro stagionale in agricoltura: Borgo Mezzanone, Nardò, Rosarno, Saluzzo. Peculiarità di Castel Volturno è la presenza di numerose chiese nere che costellano l’area: luoghi accessibili attraverso i quali riconnettersi con la cultura e la spiritualità tradizionale da cui si proviene, ma anche gusci etnici che proteggono ma non favoriscono l’integrazione nella società circostante. Chiese che passano inosservate, fenomeno quasi folklorico, eppure potenziali attori civici per promuovere legalità, welfare, inclusione sociale e civica. Se solo vi fosse la coscienza e la volontà politica necessarie ad andare in questa direzione».

 

Queste le parole che introducono il volume “Chiese nere lavoro nero” (ed. Le penseur), a cura di Paolo Naso, al centro del convegno che si è svolto venerdì 5 aprile alla Facoltà pentecostale di Scienze Religiose di Bellizzi, in provincia di Salerno. Il testo raccoglie i dati di una ricerca sul campo, condotta da un gruppo di studiosi che sono tornati a Castel Volturno circa dieci anni dopo una precedente rilevazione.

 

Dopo il saluto del preside della facoltà pentecostale della Valle del Sele, Carmine Napolitano, è intervenuto Daniele Garrone, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, che ha ricordato come in alcuni luoghi d’Italia, luoghi di sfruttamento dei lavoratori, come Rosarno, manchi l’illuminazione fisica, quella delle strade, ma soprattutto la «Luce della Repubblica», manchino cioè diritti, democrazia, libertà.

 

Alfredo Giannini, presidente della Federazione delle chiese pentecostali, ha ricordato le chiese ghanesi, cinesi e nigeriane, e citato il Deuteronomio: «Ama lo straniero che è in te e non fare torti allo straniero», accoglierlo, perché tutti lo siamo stati.

 

Per il sociologo Enzo Pace dell’Università di Padova, in collegamento video, «La ricerca diretta da Paolo Naso rivisita una realtà sociale già indagata oltre dieci anni fa e conferma l’importanza di un fenomeno come quello delle “black churches” di orientamento pentecostale. Si tratta di una realtà complessa e poco conosciuto che contribuisce a caratterizzare quelli che proprio Naso definisce il nuovo pluralismo religioso».

 

Bernadette Fraioli, ricercatrice della Sapienza di Roma, ha sottolineato la necessità di «cambiare il racconto» delle esperienze e delle comunità come quella di Castel Volturno. Perché, anche se la narrativa “scade” spesso nel folklore il quesito è: cosa differenza il folklore da una cultura? Dove si pongono i limiti? «Occorre trovare storie diverse», da raccontare, per restituire al meglio la complessità delle persone che vivono in quel luogo. Come riuscire a dare una svolta?

Serve, secondo Fraioli, «un mondo accademico che necessità di visioni più ampie, che deve provare a perseguire una terza (rete società civile) e quarta missione (territorio) a servizio della società, non parlarsi addosso sempre con addetti ai lavori, ma dare indirizzi politici chiari, strutturati, convinti. Uscire dalle aule e fare entrare nelle aule. Poi, promuovere, a tutti i livelli, un senso politico del bene comune da rinnovare, se non da ricostruire, trasversalmente, in ogni luogo, anche dove non sembra possibile, anche a Castel Volturno, ovunque, tra i cittadini comuni e i fedeli delle Chiese pentecostali di tutte le generazioni».

Da storica, Fraioli reputa importante «inserire nella storia le micro storie dei popoli, i patrimoni immateriali, intangible heritage così valorizzato a livello europeo, la storia culturale nelle materie scolastiche: lo vedo con i ragazzi delle scuole che ho frequentato in questi anni quanto lo studio di questioni della contemporaneità unito all’ascolto delle testimonianze faccia la differenza, per chi la ascolta e per chi la racconta, che si sente, per la prima volta, parte attiva del tempo, luogo e spazio in cui abita».

 

Al dibattito, moderato dal direttore di Confronti Claudio Paravati, sono poi intervenuti alcuni tra gli autori e autrici del libro: Giovanni Ferrarese, Donato Di Sanzo, Tamara Pispisa, Alberto Annarilli, Andrea D’Uva Cimeli, Simone Pepponi Fortunati, Giamaica Roberta Mannara, Alessia Passarelli, Luca Castagna, Giovanni Cerchia.

 

Dell’importanza di «valorizzare le microstorie al fine di raccontare una macrostoria, per ricostruire una storia di quel territorio» ha parlato Di Sanzo; Ferrarese ha sottolineato come a Castel Volturno “manchino le scelte dello Stato”. Mannara ha evidenziato la “complessità dell’integrazione”, mentre il sindacalista FLAI CGIL Jean René Bilongo, autore dell’introduzione del libro, ha ricordato la lezione di Jerry Masslo, predicatore battista ucciso il 25 agosto del 1989. “Castel volturno – ha dichiarato il sindacalista – è una occasione persa per questo paese”.

 

Paolo Naso, autore del libro al centro dell’iniziativa, ha concluso il convegno premettendo un «debito intellettuale verso Castel Volturno perché tutto inizia lì, è stato uno dei primi hub immigratori, negli Anni ’70 e la comunità scientifica sottovalutò quello che stava accadendo». In questo quadro, dal punto di vista della ricerca, è stato sottovalutato anche il «Fattore R: la rilevanza del fattore religioso nelle migrazioni. La religione conta – ha detto Naso – è un elemento decisivo per comprendere la dinamica migratoria». In particolare, in questi territori, la religione è “il pentecostalismo: di cui ancora si sa troppo poco ma parliamo di 300mila persone in Italia”. Dunque, ha concluso, Naso, «Castel Volturno è il passato, ma forse è anche il futuro?»