27 gennaio, i punti fermi della memoria

Sulla persecuzione e sterminio degli ebrei in Europa, la storia ha dato un giudizio dal quale non è possibile recedere. Ogni tragedia è un “unicum” la cui portata non è negoziabile in base a quanto avviene successivamente

 

Nella centrifuga del sistema mediatico, che da alcuni anni ormai veicola verità, notizie e false notizie a ritmo quotidiano, serve trovare qualche regola di comportamento che aiuti a discernere: occorre saper cogliere, nel flusso degli eventi e in quello mediatico, dei punti fermi, che possano orientare le nostre esistenze e il nostro agire. Punti fermi: cioè l’accertamento di verità che, a meno di nuove risultanze, non siano messe in discussione. Da lì poi la libera discussione e la dialettica fra le opinioni più diverse (possibilmente nel rispetto di quelle altrui) sono preziose e benvenute.

Banco di prova di questa necessità è la Giornata della Memoria del 27 gennaio, giorno della liberazione degli ultimi prigionieri nel Lager di Auschwitz, da parte dei soldati dell’Armata Rossa, solennità istituita in Italia con l’approvazione della legge 211 del 20 luglio 2000 – proponente Furio Colombo. Seguirà un riconoscimento da parte delle Nazioni Unite con risoluzione del 1° novembre 2005.

 

Il concetto di memoria, peraltro, si articola in almeno due significati. Esiste una memoria popolarmente condivisa, un “sentire comune” di chi ha vissuto esperienze o ne ha seguito le testimonianze, ne ha discusso essendosi formato a scuola su tali concetti; una sorta di sensibilità collettiva, che trova nell’ampia diffusione il suo pregio e i propri limiti: il pregio, appunto, di non essere circoscritta a una élite di persone “superiori”, presentandosi invece come patrimonio condiviso; il limite, inevitabile, di prestarsi a sfumature, interpretazioni variegate, reazioni soggettive e a volte estemporanee. Ciò avviene per molte materie legate alla storia recente: quando essa è troppo vicina a noi per essere esaminata lucidamente, ma è anche sufficientemente “passa- ta” per consentire letture diverse.

Ciò detto, quando uno Stato, e poi l’Onu, decidono, ecco che allora la memoria collettiva, diffusa, si codifica e trova un momento di sanzione ufficiale. Un punto di non ritorno, come una sentenza. Nel campo della giustizia penale, solo di fronte a nuove risultanze che non siano state prese in considerazione o non fossero disponibili all’epoca dell’iter processuale, si può pensare di “riaprire un caso” e andare eventualmente a un nuovo processo (è successo a proposito del “caso Sofri” e sta avvenendo in queste settimane per la cosiddetta “strage di Erba”). L’intreccio fra sanzione processuale, vicenda politica e passaggio di un evento alla storia condivisa è peraltro particolarmente delicato, e si è visto con la maggiore evidenza nel caso del Processo di Norimberga.

 

Ma nel caso della persecuzione e sterminio degli ebrei messo in opera dal regime hitleriano (con il concorso o il silenzio di tante complicità) non esistono dubbi di sorta. C’è un prima e un dopo. La volontà di annientare un popolo sparso in tutta Europa sulla base della sua appartenenza etnica, dell’appartenenza religiosa e in nome della presunta razza (più che altro per “difendere” la purezza della propria razza, come indicava la testata di una diffusa rivista italiana), in ossequio a una perversa ideologia di superiorità, è stata riconosciuta come una bestemmia, un ritorno indietro del mondo, attuato con i mezzi e gli strumenti e la razionalità della modernità, o forse come esito perverso proprio della modernità (v. Z. Bauman, Modernità e olocausto, 1989 – ed. it. 1992). Una volontà di distruzione e annientamento fondata su teorie di lunga data, purtroppo in parte originate anche all’interno del pensiero cristiano (per la nostra parte si veda almeno Th. Kaufmann, Gli ebrei di Lutero, Claudiana, 2016), poi innestate sul disagio sociale della Germania fra le due guerre, immiserita e senza prospettive, che si buttò, tramite regolari elezioni, nelle braccia di Hitler.

Il mondo e la storia hanno condannato senza appello tutto questo e la legge italiana del 2000 ha inteso rendere omaggio anche a quanti si sono spesi per cercare di dare riparo agli ebrei perseguitati nel nostro Paese, con rischi per sé e per le proprie famiglie. Con tutti i limiti delle ricorrenze, che sempre rischiano di trasformarsi in liturgie un po’ manierate, ma nell’urgenza di mantenere viva la memoria e l’informazione su quanto è successo (mentre la storia biologica ci sta privando anno per anno dei testimoni di allora), occorre svincolare la celebrazione di una data precisa, di un evento preciso, da ogni tentazione di interpretare i fatti di allora con l’ottica di oggi e sotto la spinta dell’attualità.

 

Ciò che è apparso chiaro alla fine della Seconda Guerra mondiale non ha avuto eguali e va riconosciuto come tale, come un unicum. Personalmente diffido della tendenza a considerare la Shoah come il male “assoluto”, perché ciò equivale a porre la persecuzione e lo sterminio degli ebrei fuori della storia, come se si fosse trattato di un processo metafisico e soprannaturale, a scapito della ricerca, non ancora finita, dei responsabili. Un unicum, dunque, come un unicum è stato il massacro degli armeni del 1915-1919, così come i Gulag e i campi di Pol-Pot: condizionarne la valutazione a eventi successivi equivarrebbe a sconfessare la storia e a ridimensionare le responsabilità accertate. Una relativizzazione che non ci possiamo permettere.

 

Su tutto il resto, compresi i giudizi da dare sullo Stato di Israele, possiamo discutere, ed è quanto cerchiamo di fare.

 

Foto: Jean-Pierre Giovenco