Pippo Fava, la meraviglia del coraggio
Quarant’anni senza Pippo Fava, fondatore de «I Siciliani», assassinato dalla mafia il 5 gennaio 1984
Una settimana prima Pippo Fava era stato ospite di Enzo Biagi: fu la sua ultima apparizione, un momento di televisione altissimo, un grido e una denuncia, l’ennesima, contro la piovra che infestava la sua terra.
A Fava dobbiamo tanto. Per il suo entusiasmo, per la sua passione civile, per il suo costante impegno contro ogni stortura e per la sua prosa, ficcante e mai banale, che ha contribuito a illuminare i tanti lati oscuri di una regione letteralmente appaltata a un potere marcio che non ha fatto altro che depredarla.
Brillava in lui la meraviglia del coraggio: quella disperazione che ti spinge ad andare avanti, a non arrenderti mai, a metterci l’anima sempre e comunque, a dire la tua anche quando tanti ti consigliano di tacere, a parlare perché si deve, anche se ne conosci le conseguenze e sai già che il prezzo da pagare sarà altissimo, e infine a lottare senza paura e, spesso, persino senza speranza, come ci aveva insegnato a fare Sandro Pertini, il presidente partigiano di allora.
Fava non ha mai smesso di compiere denunce e di risultare scomodo. Dal giornalismo alla narrativa, passando per il cinema e per il teatro, ha combattuto a mani nude con un gruppo di ragazzi eroici, disposti a seguirlo in nome di una certa idea di giornalismo e di società.
Era limpida la visione sociale di questo giornalista sui generis: schiena dritta e testa alta. Quando ancora dirigeva il Giornale del Sud, l’11 ottobre 1981, ebbe il coraggio di firmare un editoriale che divenne il suo manifesto esistenziale.
S’intitolava «Lo spirito di un giornale» e in un passaggio recitava: «Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo, infatti, che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo».
Il suo aspetto più nobile era la determinazione, condita da un ottimismo sincero e inscalfibile che non significava negazione della realtà e, meno che mai, ingenuità ma volontà di credere che le cose potessero comunque cambiare, che il buon giornalismo potesse fornire un contributo in tal senso, che la società si sarebbe, prima o poi, risvegliata e che la Sicilia onesta avrebbe trovato, in qualche modo, la forza di ribellarsi e produrre una piccola rivoluzione. Per questo si circondò di giovani e, quando si trovò disoccupato, anziché piangersi addosso, prese la sua banda di ragazzotti e fondò con loro un mensile destinato a rivoluzionare il panorama informativo dell’epoca: I Siciliani, per l’appunto.
Mise in piedi la cooperativa Radar, avendo a disposizione a malapena due rotative Roland acquistate grazie alle cambiali, e compì un miracolo. Di quella redazione, solo per citare alcuni nomi, facevano infatti parte cronisti come Riccardo Orioles, Michele Gambino e Antonio Roccuzzo, oltre al figlio Claudio, che ne ha onorato degnamente la memoria e portato avanti l’impegno politico e civile.
Ben pochi furono gli esponenti politici che si presentarono ai funerali. Il desiderio diffuso era di archiviare il caso, magari facendolo passare per un delitto a sfondo passionale e gettando fango su una persona integerrima, al fine di screditarne l’operato e le battaglie.
Fava morì perché era stato lasciato solo, perché era un bersaglio facile da colpire, perché dava fastidio a molti. Troppo libero, troppo umano, troppo intelligente: aveva capito alla perfezione che la vera mafia non era più quella con la coppola e la lupara che girava per le campagne a vessare i contadini ma quella affaristica, collusa con il potere e pronta a finanziarlo per raggiungere i propri scopi. Lo disse espressamente a Biagi: «Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione che si fa sul problema della mafia.[…] I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. […] Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più tragico e più importante, è un problema di vertice nella gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale e definitivo l’Italia».
Uno così faceva paura e ne era consapevole. Non a caso, in uno dei suoi lucidissimi sfoghi, affermò: «Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…».
Eppure, aveva ragione lui a essere ottimista. Perché dopo il Maxi-processo, dopo l’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi e dopo le stragi in cui morirono Falcone e Borsellino, qualcosa è cambiato per sempre in Sicilia. È nata una coscienza anti-mafia, si è diffusa la battaglia per la legalità e oggi possiamo dire che sia diventata patrimonio comune. Le giovani generazioni non tacciono più, non si nascondono, parlano apertamente di mafia e la definiscono nel modo corretto: una «montagna di merda», seguendo l’esempio di un altro grande intellettuale come Peppino Impastato, che in comune con Fava aveva soprattutto la passione per il giornalismo indipendente e per l’irriverenza.
Quarant’anni non sono pochi ma i suoi ragazzi non hanno smesso di crederci e altri hanno seguito il loro esempio. Per questo, lo ricordiamo con un sorriso, con la consapevolezza che la sua lotta non sia stata vana e con la promessa, piu importante di mille celebrazioni, che continueremo ad avere la stessa visione etica del giornalismo. Perché è vero che un’informazione autonoma e nemica di ogni bavaglio può incidere nella carne viva del Paese, fino a modificarne costumi e modo di pensare. Lo sa benissimo anche chi non la vuole e fa di tutto per contrastarla: ce ne rendiamo conto ogni giorno ma, proprio come Fava, non siamo disposti a chinare la testa.
*per gentile concessione dell’autore e di Articolo21.org