Non sono solo parole

La Commissione sinodale per la Diaconia si è appena dotata di Linee guida per un linguaggio inclusivo di genere: uno strumento utile anche per aiutare le chiese a fare un cammino comune

Ascolta l’intervista:

La Commissione sinodale per la Diaconia (il braccio sociale della Chiesa valdese – Unione delle chiese valdesi e metodiste) ha da poco diffuso alcune Linee guida per un linguaggio inclusivo di genere (che si possono trovare sul sito https://diaconiavaldese.org) in cui si affrontano, tra gli altri, i temi del maschile sovraesteso, del binarismo di genere, dei nuovi morfemi. Questioni solo in apparenza astratte, ma che riguardano la vita quotidiana di tutte e tutti.

Si tratta di una tappa ulteriore del percorso che ha portato la scorsa primavera al riconoscimento sulla parità di genere con apposita certificazione (UNI PdR 125:2022), ma, ci dice Monica Fabbri, coordinatrice del Comitato Parità della Csd che ha redatto il documento insieme all’Ufficio Comunicazione Csd, «decidere di fare delle linee guida per il linguaggio inclusivo non è una cosa scontata, la definirei coraggiosa, perché in questo momento è un argomento molto divisivo: il linguaggio inclusivo può essere… esclusivo! Il tentativo di includere tutte e tutti in una lingua come l’italiano che non prevede il genere neutro, pone delle difficoltà e delle domande, rispetto al modo in cui vogliamo comunicare al nostro interno, tra colleghi, colleghe, sia all’esterno».

– Peraltro non è un documento “definitivo”, men che meno normativo, ma piuttosto un “work in progress”: pur trattandosi di un testo in un certo senso “interno”, è corretto dire che parla anche alle altre realtà della Chiesa valdese?
«Certamente, questi documenti devono essere sempre considerati in possibile revisione; è il momento di fare questa riflessione, e di farla tutti insieme. Un documento di questo tipo vuole avviare innanzitutto un cammino di riflessione culturale, senza l’arroganza di dire “io ho ragione”, e senza fughe in avanti. Il linguaggio è qualcosa di molto intimo e personale, non tutti riescono, per esempio, o fanno fatica, a utilizzare l’asterisco, la schwa, o il linguaggio inclusivo di tipo binario. Ma il linguaggio evolve, con velocità diverse, noi dobbiamo saperci interrogare, semplicemente porci delle domande sulle persone a cui ci rivolgiamo e metterci nei panni degli altri».

– Nelle linee guida sono presenti almeno due temi spinosi, i nuovi morfemi (asterisco, schwa…) usati al posto delle consuete desinenze maschile/femminile, e il non binarismo di genere. Quale linea proponete?
«Innanzitutto il documento parla del superamento del “maschile sovraesteso” (la prassi che prevede la declinazione al maschile per includere tutti, ndr), è il suo primo obiettivo; spiega che esiste il non binarismo e quale tipo di linguaggio può includere veramente tutti. C’è per esempio l’indicazione di utilizzare laddove possibile, anche facendo qualche sforzo, dei termini neutri (per esempio, non “i cittadini e le cittadine” ma “la cittadinanza” o “la popolazione”). Ovviamente non sempre è possibile, in tal caso la nostra indicazione è di non usare i neomorfemi (asterisco, schwa) di default, nelle comunicazioni, perché possono creare disagio nelle persone, sia se si sentono costrette a usarli, sia in chi riceve. Naturalmente non è un divieto assoluto, l’importante è assicurarsi che la scelta sia compresa e accettata da tutti. Anzi, può essere occasione per una discussione comune, perché un avanzamento culturale non si fa con l’imposizione ma con la riflessione comune».

– Non calare le cose dall’alto, ma farle muovere dal basso, offrendo anche esempi pratici: questo l’approccio, molto onesto, del documento, che riconosce di non avere le risposte, ma con serietà e disponibilità indica una strada all’interno di quello che sembra un labirinto, pensiamo anche ai numerosi cartelli, documenti, regolamenti…
«Certamente: i regolamenti per esempio sono testi faticosi da leggere di per sé, il linguaggio binario non aiuta. Si può allora utilizzare un semplice disclaimer (dichiarazione), in cui si spiega che si sta utilizzando il linguaggio maschile sovraesteso, ma si includono i due generi e anche la prospettiva della fluidità di genere e del non binarismo. È già una dimostrazione che si è riflettuto sulla questione, e porterà a farlo anche le persone che leggeranno il documento».

– Molta strada è ancora da percorrere, per esempio voi avete mantenuto l’uso di direttrice e relatrice, ma avete riconosciuto parole ormai entrate nell’uso nelle nostre chiese, come moderatora e pastora, ma che a suo tempo, e non parliamo di secoli fa, provocarono accesi dibattiti…
«Su questo abbiamo fatto una scelta “di conservazione”, pur ammettendo dei termini non proprio convenzionali come moderatora o pastora, ma ormai entrati nel nostro linguaggio; poi chissà, magari in una delle prossime revisioni entrerà nell’uso direttora… Per ora non ci siamo sentiti di dare queste indicazioni, perché il rischio sarebbe stato di avere un documento che rimane sulla carta, e ciò sarebbe un totale insuccesso. C’è una via di mezzo, che spero venga compresa, in questo documento, che faccia capire che il percorso va fatto da tutti, quindi chi riceve un documento che contiene l’asterisco o la schwa non si senta escluso, ma allo stesso tempo le persone non si sentano obbligate a usare un linguaggio che non appartiene loro, perché questo rischia di essere bloccante».