La natura che accoglie
Intervista con Marco Berardo Di Stefano della “Rete delle fattorie sociali” per presentare i mille campi di impegno dell’agricoltura sociale
È in distribuzione in tutto il territorio del pinerolese nell’area sud della provincia di Torino (lo trovate in centinaia di luoghi pubblici, dalle biblioteche ai negozi) il numero di novembre del mensile free press L’Eco delle valli valdesi che potete leggere integralmente anche dal nostro sito, dalla home page di di www.riforma.it. Il dossier di questo mese è dedicato all’agricoltura sociale e ai suoi tanti campi di applicazione. In questo articolo che segue Claudio Geymonat intervista Marco Berardo Di Stefano, presidente dell’associazione “Rete delle fattorie sociali”. Buona lettura.
«A Francesco, un uomo con una patologia psichiatrica e che ha la caratteristica di essere eccezionalmente preciso, era stato chiesto di raccogliere spinaci: ci ha messo quattro ore per riempire una cesta. Le foglie erano disposte tutte in ordine cromatico perfetto, tutte pulite, ma con quel ritmo la cesta avremmo dovuto venderla a peso d’oro per ottenere un guadagno. In compagnia del suo educatore allora abbiamo ragionato su come Francesco potesse essere più utile alla causa. Avendo la patente si pensò che poteva fare le consegne delle merci. L’idea lo agitò molto, ma la sua eccezionale precisione ha fatto sì che non abbia mai scordato nulla, non abbia mai preso una multa. Quando è stato il momento della consegna della prima busta paga della sua vita, a 40 anni, Francesco riceve la prova che anche lui è una persona capace di fare delle cose, e che addirittura c’è chi è disposto a pagarlo per questo. Tanta è stata la sua emozione in quel momento che si è come sbloccato: a quel punto poteva fare anche altri lavori, ha acquistato fiducia in sé stesso. Veniva da una famiglia di agricoltori e alla fine ha aperto lui una fattoria sociale a casa sua e ora è lui ad aiutare altri ragazzi con difficoltà».
C’è tutta l’agricoltura sociale in questa vicenda che ci racconta Marco Berardo Di Stefano, presidente dell’associazione che riunisce un largo numero delle fattorie sociali presenti in Italia: attività medica, capacità di ascolto, ma anche gli aspetti economici da salvaguardare, dell’azienda e della sanità pubblica. C’è inoltre quella che Berardo chiama “sartoria del lavoro”, l’attività cucita sulle caratteristiche della persona e non viceversa, come accade di solito quando siamo noi a doverci adattare alle caratteristiche di una specifica mansione.
L’agricoltura sociale può essere considerata come l’insieme di attività che, grazie all’utilizzo delle risorse dell’agricoltura, realizza azioni di rilevanza sociale, sanitaria e educativa nei confronti di persone interessate da disagi di natura fisica, psico-fisica o a rischio di esclusione sociale (disabili psichici e fisici, donne vittime di violenza, rifugiati politici, persone con problemi di tossicodipendenza, ex-detenuti).
L’Italia è all’avanguardia nel settore, ed è stata la prima nazione europea ad avere una legge organica in materia, la 141 del 2015, cui si è giunti anche grazie al contributo della “Rete delle fattorie sociali” presieduta da Berardo, che dal 2005 diventa uno strumento per mettere in comune sforzi e competenze, e interlocutrice di Istituzioni locali e nazionali nel costruire le norme in materia.
«La natura accoglie tutti». Quasi uno slogan quello di Berardo, che ben si spiega ricordando come «nelle antiche comunità rurali ognuno aveva un ruolo in base a quanto poteva fare; c’era chi magari raccoglieva soltanto la legna, ma non si trovava emarginato come invece accade nella società urbana. Questa idea si è poi trasferita in esperimenti di agricoltura sociale già negli anni ’60 del Novecento e poi a seguito del lascito della Legge Basaglia che ha chiuso i manicomi e “obbligato” le istituzioni a trovare nuove vie per la gestione di un’intera categoria di soggetti fragili».
La “sartoria del lavoro” si applica ovunque possibile: «A persone con patologie psichiatriche che portano all’iperattività può essere d’aiuto dover curare piante che non abbiano risposte troppo rapide, in modo tale da imparare a rispettare i tempi della Natura, a essere responsabili perché la pianta va innaffiata e curata in un rapporto di causa ed effetto che non è un gioco, ma una situazione reale con effetti reali. L’“orto di auto” può avere effetti positivi per chi ha patologie quali la depressione coltivando piante che vanno a frutto velocemente in modo tale che il paziente veda in tempi più rapidi un risultato per le sue azioni». Gli esempi sono davvero molti, dai giardini sensoriali per patologie neuro-degenerative agli interventi assistiti con gli animali, (ippoterapia forse la più nota) che possono produrre risultati eccezionali sulle persone. Un esempio, gli asini: «Ci sono molti ragazzi con difficoltà quali l’autismo che riescono in qualche modo a creare una relazione con l’animale: all’animale interessa come viene curato, come viene abbracciato, quindi si creano relazioni su un livello diverso, non verbale ma di grande beneficio».
Oltre all’erogazione di servizi a soggetti fragili, l’altro grande settore di intervento dell’agricoltura sociale è l’inclusione lavorativa, come abbiamo visto nell’esempio di Francesco. I soggetti coinvolti diventano parte della catena economica della fattoria, che deve essere sostenibile, reggersi sulle proprie gambe. Diminuiscono le recidive da parte di ex-detenuti, diminuiscono le spese mediche per la Sanità pubblica e si recuperano al vivere sociale intere categorie di persone.
Un settore da sviluppare e su cui puntare, come molti atenei si stanno finalmente accorgendo.