Medical Hope. Prendersi cura dei pazienti

Intervista a Luciano Griso, medico e referente del progetto sanitario in Libano

Nel 2016 nell’ambito di Mediterranean Hope – il programma migranti e rifugiati della Fcei –, nasce Medical Hope, il progetto sanitario in Libano che fornisce sostegno medico gratuito a profughi ma anche a locali che non hanno accesso alle cure per mancanza di risorse economiche. Il progetto è finanziato oltre che dai fondi Otto per mille dell’Unione cristiana evangelica battista in Italia (Ucebi) – che nell’ultimo anno copre il 60% del budget complessivo – anche dai Mormoni, Esercito della Salvezza e singoli donatori per un totale di circa 90.000 euro. 

Dopo sette anni dal suo avvio, a che punto è il progetto? Ce ne parla il referente, il dott. Luciano Griso.
«In un paese sempre più colpito dalla crisi economica, politica, sociale, Medical Hope è un punto di riferimento per persone fragili, povere, estremamente vulnerabili. Non ci limitiamo a visitare i pazienti ma interpretiamo questo lavoro come “prendersi cura” del paziente, a esempio prenotando le visite specialistiche, analizzando i referti, accompagnando le persone nel loro percorso. Cerchiamo di stabilire un rapporto di fiducia coi pazienti. Si tratta di una piccola goccia nell’oceano delle necessità, però per coloro che riusciamo a seguire, questo progetto rappresenta una roccia a cui aggrapparsi».

– Chi sono le persone che ricevono assistenza sanitaria?
«All’inizio erano i beneficiari dei corridori umanitari, poi l’intervento si è allargato: abbiamo fatto rete con organizzazioni internazionali e locali, come Medici senza frontiere, la Croce Rossa internazionale e la Croce Rossa libanese, che ci segnalano i pazienti. Dal punto di vista della nazionalità i rifugiati siriani rappresentano la maggior percentuale dei nostri assistiti, ma seguiamo ora anche molti libanesi. Ultimamente poi ci stiamo occupando di migrants workers: in particolare, donne provenienti da Eritrea, Etiopia, Somalia, Bangladesh e Sri Lanka che arrivano in Libano per lavorare come domestiche presso famiglie agiate libanesi. Queste lavoratrici sono soggette al sistema “kafala”, esistente in Libano e nei paesi del Golfo arabico, che vincola la residenza legale delle migranti alla relazione contrattuale con il datore di lavoro. Ciò significa che la lavoratrice non può cambiare attività o abbandonare l’abitazione del datore di lavoro senza il permesso di quest’ultimo. Questa norma determina sfruttamento: paghe salariali molto basse, lunghi orari di lavoro, limitazioni alla libertà di muoversi, violenze fisiche, psicologiche, sessuali e privazione delle cure mediche. Durante le nostre missioni abbiamo una giornata dedicata esclusivamente a queste donne». 

– Soffrono di particolari patologie?
«Oltre ai problemi legati al lavoro che fanno, come ernie e artrosi, riscontriamo patologie oncologiche femminili come tumori alle mammelle, all’utero e ovaie. Purtroppo, sono patologie per le quali possiamo fare poco perché le terapie sono molto costose. Anche le organizzazioni internazionali con enormi budget, come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, non coprono le spese per patologie tumorali, per cui queste persone sono lasciate a se stesse. È veramente una tragedia».

– Quante persone seguite? 
«Durante ciascuna delle missioni ne raggiungiamo circa 120/130. A Beirut facciamo anche educazione sanitaria per gli anziani ed educazione sessuale per le donne delle famiglie siriane, molte delle quali affrontano in media sette gravidanze in condizioni estremamente precarie. Una volta al mese vado in Libano per una dozzina di giorni, e quando non ci sono, i pazienti sono seguiti dall’équipe locale che è formata, oltre che da me, da Marta Barabino, coordinatrice sul campo, da Zeina infermiera libanese, e Ayman, giovane rifugiato siriano che è mediatore linguistico. Tutti e tutte animati da grande dedizione ed empatia nei confronti dei pazienti: senza empatia questo lavoro non avrebbe senso».

– Quali sono le maggiori difficoltà che incontrate? 
«La principale è quella di avere a disposizione un budget limitato. Altra difficoltà è quella della impossibilità al momento di far arrivare medicine dall’Italia: c’è una sorta di lobby farmaceutica libanese per cui i farmaci rimangono fermi alla dogana per mesi e mesi, per poi perdersi. Sono anni che cerchiamo di aggirare questo ostacolo: l’ultima possibilità è fare un accordo con l’Unifil, la Forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite, a cui arrivano rifornimenti di ogni genere. Vediamo se questo accordo va in porto».

– Spaventa il conflitto riaccesosi in Medio Oriente?
«Come già accaduto nel 1980 e nel 2006 si teme che il conflitto possa coinvolgere anche il Libano per il confine che condivide con Israele e per il fatto che nel paese è presente la forza militare politica e religiosa degli Hezbollah che sostiene la causa palestinese. Poiché la sicurezza non è garantita in questo momento, per indicazioni della Fcei, il nostro team è rientrato in Italia. Rimangono però sul campo l’infermiera e il mediatore che seguono l’iter designato per i pazienti: quotidianamente ricevo messaggi di aggiornamento e finora i pazienti non stanno risentendo di questa assenza».

– Che cosa le sta dando questa esperienza come medico e come credente?
«Mi mette a contatto con una realtà che, anche alla mia età, mi fa crescere emotivamente e spiritualmente: come medico conosco la sofferenza ma quella che incontro svolgendo il mio servizio con Medical Hope è più “primitiva”. In Italia il malato sa che può essere ricoverato in ospedale, seguire le prescrizioni, prendere le medicine perché c’è un Sistema sanitario che provvede a tutto ciò. In Libano la sofferenza è primitiva perché incontriamo persone completamente abbandonate a se stesse che vivono nei sottoscala, nei campi profughi. Certo dai, ma anche ricevi tanto in termini di emozioni e affetto. Nonostante siano passati tanti anni dal suo avvio, porto avanti questo progetto ancora con entusiasmo e mi auguro di avere la salute e la possibilità di poter trovare fonti di finanziamento che permettano a Medical Hope di andare avanti fin quando si potrà e fin quando Dio ce lo permetterà».