Cercare significati
Il conflitto israelo-palestinese interroga profondamente le nostre coscienze come cittadini europei e come credenti
Il conflitto israelo-palestinese interroga profondamente le nostre coscienze come cittadini europei e come credenti. Interroga gli ebrei come i conflitti in Sud-Africa e Irlanda hanno posto domande ai protestanti, perché implicano scelte politiche di una parte di coloro che tali si definiscono. Questi nodi da un lato mettono a confronto culture e tradizioni, dall’altro impongono un’analisi geopolitica dell’attualità. La cultura, infatti, è utile a capire ma non a giustificare. La politica impone la ricerca di soluzioni per popoli e minoranze in stato di oppressione.
Nella cultura si collocano i sistemi di pensiero che motivano le azioni, mentre la politica può scatenare sia aggressività sia accoglienza dell’altro diverso da noi. Lo scontro fra Israele e Palestina, fra dolore e rabbia, apre domande profonde anche di tipo teologico: non possiamo far finta di nulla. Il rimosso, specie se collettivo, muove ingranaggi latenti nel sottosuolo sociale che poi sfociano in tifoserie razziste reciprocamente aggressive. Ed è irritante nascondersi dietro a retoriche discorsive che invocano solidarietà o dietro la difficoltà a capire. L’ignoranza, nel senso di non sapere, non è ammessa in periodi storici pieni di durezze, anche se si dice sia meglio non sollevare dibattiti su questioni divisive.
Le spaccature esistono anche se non le diciamo. Importante è non fermarsi nella polarizzazione politica, ma cercare una possibile uscita, a partire da alcune consapevolezze, fra le quali che l’essere vittima non è un dato esistenziale perenne, ma una condizione prodotta da congiunture storiche. Ciò significa che può mutare, anche nel suo rovescio. Le vittime nella storia sono state milioni, legate a genocidi di interi popoli: armeni distrutti dall’Impero Ottomano; cambogiani contrari ai khmer rossi; tutsi del Ruanda e musulmani bosniaci, oltre alle vittime delle dittature in America latina. La Shoah, infine, lo sterminio degli ebrei, quasi sei milioni di vittime, è una tragedia indelebile della storia europea che ne soffre ancora la colpa. Fu una delle ragioni per cui, con l’assenso degli Usa, dal 1948 nacque lo stato di Israele, anche per una forma di giustizia riparativa. Sostenuto, sin dal XIX secolo, dal movimento sionista – che incitò gli ebrei a stabilirvisi e dal ministro degli esteri inglese Balfour favorevole a «una dimora nazionale per il popolo ebraico» – allargò i suoi confini, ancora oggi non dichiarati definitivi, per via militare.
«In un tempo relativamente breve è nata una piccola potenza», scriveva Silvio Ortona già vent’anni fa su Ha Keillah (periodico della Comunità ebraica di Torino, ott. 2001). Tuttavia, non si può impugnare la memoria dell’Olocausto per giustificare il diritto alla difesa di «uno stato-nazione del popolo ebraico» (Legge «fondamentale» 2018), dimenticando altre antiche presenze sullo stesso suolo. Un evento fondativo della propria storia non può diventare un assoluto identitario che motiva azioni ritenute corrette solo perché rispondono a un trauma del passato. Ingabbiarlo, induce a comportamenti escludenti, individuali e collettivi, che non permettono, dicono le scienze umane, specie la psicoanalisi (Faimberg, Kaes, Arslan, Wardi…), una vita autonoma, come se ci si avviluppasse in modo compulsivo attorno a un chiodo. Il dolore ereditato, trasformato in un comandamento da adempiere in nome dei padri, se diventa motore psichico di una realtà da costruire, impedisce di “vedere” gli altri, specie i diversi da noi. Per lo stato d’Israele in nome del trauma subito sembra che tutto sia permesso.
L’alterità con la Palestina sta dentro tale dinamica, nel confronto con un mondo arabo tormentato da mai finiti colonialismi, tendenze integraliste e false rappresentazioni. La nascita di Israele ha marcato un confine fra due mondi vissuti in parallelo, un conflitto mai cessato, nonostante le risoluzioni Onu che chiedono il rispetto della presenza palestinese. Israele non è una nazione debole (possiede l’atomica). Sentirsi minacciato e minacciare allo stesso tempo sta dentro il suo sorgere su quel pezzo di terra mediorientale. Poiché il suo statuto, tuttavia, è di essere una repubblica parlamentare, il suo agire politico dovrebbe essere ispirato almeno alle leggi umanitarie del diritto internazionale, nel caso, sospendere l’assedio di Gaza, una striscia di poche decine di kmq da tutti ormai riconosciuta come una prigione a cielo aperto. Del resto, come si può definire altrimenti uno spazio dove i rubinetti dell’acqua e della luce sono in mani esterne alla propria giurisdizione?
Infine, il dolore è un sentire diffuso che attraversa il mondo ebraico, arabo ed europeo. Nel primo è in crisi un “ebraismo universale”, come afferma Stefano Levi della Torre (Mosaico, Torino, 1994), una diaspora che si deve confrontare con una politica del “proprio” Stato che si può anche non condividere. Lo stanno dimostrando le manifestazioni a Washington di ebrei contrari all’occupazione militare della Palestina e molti articoli di Haaretz, quotidiano israeliano progressista, critici verso il governo di estrema destra in carica. Inoltre, sempre più urge precisare, alla luce degli ultimi eventi, i concetti di ebreo (religioso), israeliano (civile) e sionista (militante), come invoca Yehoshua nel suo Elogio della normalità (Giuntina 1981), possibile quando si ammetterà che «la terra non era vuota» (p.75), là dove Israele si andava costruendo. Nel mondo arabo – composto, non solo come si usa immaginare, con una vena di razzismo, da masse diseredate che vivono sotto le tende, ma da intellettuali, scrittori, artigiani e gente come noi dell’altra sponda del Mediterraneo – il dolore è verso un’Europa che ha perso il suo essere baluardo dei diritti dei popoli, incapace di fare vere proposte di pace basate sul reciproco riconoscimento. Infine, il dolore del mondo europeo che, oltre alla malinconia del suo percepirsi invecchiato, da un lato sperimenta l’impotenza della sua politica e dall’altro invoca un necessario recupero di quella interculturalità di religioni e culture che lo ha caratterizzato sin dall’origine.