A noi la Pace, please!
Viene dai poeti uno stimolo a riflettere su vecchie e nuove conflittualità, oltre gli schematismi
In un mondo sempre più polarizzato, oggi parlare di pace, anche per un pastore evangelico, diventa per alcuni un’eresia, per altri un’ideologia. Non si può parlare di pace, spirituale e sociale, senza essere etichettati e strumentalizzati da estremismi contrapposti. La via media, declamata da Aristotele, sembra perdersi nei pochi rivoli di cuori pensanti che, consapevoli di quanto la pace sia una necessità indifferibile, provano a far sentire la loro voce. Voce che sembra spegnersi nel deserto dell’indifferenza. La via della pace indicata da Gesù suscita persino ilarità e viene relegata nel mondo dei sogni. Eppure è di pace che l’umanità ha urgentemente bisogno, ora, non un domani nebbioso!
Pensando alla guerra alle porte di casa, che ormai va avanti da un anno e mezzo e che continua a seminare orrore e morte, mi sono posto la domanda: chi deciderà quando percorrere seriamente la via della pace? Molto probabilmente lo decideranno un manipolo di potenti quando i morti saranno considerati sufficienti e il profitto dalle armi si sposterà sulla ricostruzione. A quel punto la parola pace scorrerà a fiumi sui media, soffocando il pensiero e strumentalizzando la pace per altri interessi. Mi sono venuti alla memoria due poeti, diversi tra loro, ma che, interpretando le contraddizioni e le scie di sofferenze che le guerre si portano dietro, sono accomunati dallo stesso tempismo nell’anticipare e denunciare i disastri che la guerra comporta.
Il primo è il poeta, scrittore e giornalista romano Carlo Alberto Salustri, meglio noto come Trilussa. Nel 1914, quando i quotidiani iniziavano a riferire le prime crudeltà che avevano luogo nelle trincee, componendo in dialetto romanesco, Trilussa, immaginando di dedicare dei versi a un bambino, sotto forma di ninna nanna mette in luce in modo ironico e pungente le avidità personali dei potenti velate da ideali mistificatori. Con la loro ideologia «li sovrani», facendo scoppiare la guerra, provano a nascondere i loro interessi personali e la loro ipocrisia che, invece Trilussa, mette a nudo. Con una visione lucida e acuta, egli ha il coraggio di denunciare l’insensatezza di quella che passerà alla storia come la Prima Guerra mondiale. Ne cito uno stralcio: «… Fa la ninna, cocco bello/ finché dura ‘sto macello/ fa la ninna/ che domani rivedremo li sovrani/ che se scambieno la stima/ boni amichi come prima/… Torneranno più cordiali/ li rapporti personali/ e riuniti infra de loro/ senza l’ombra de un rimorso/ ce faranno un ber discorso su la pace e sur lavoro/ pe’ quer popolo cojone/ risparmiato dar cannone».
Il secondo è il poeta e drammaturgo tedesco Bertolt Brecht che agli albori della Seconda Guerra mondiale, con un lessico scarno e una sintassi concisa, fotografa in anticipo una guerra che porterà terrore e morte nel mondo. Scritta in esilio, la poesia fa parte di una celebre raccolta uscita nel 1939, Poesie di Svenborg. In questo poema Brecht esprime tutta la sua dissonanza verso “la guerra che verrà”, che arricchirà oligarchie e lascerà il popolo a leccarsi le ferite: «La guerra che verrà non è la prima / Prima ci sono state altre guerre/ Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti/ Fra i vinti la povera gente faceva la fame/ Fra i vincitori era sempre la povera gente a fare la fame».
Due poeti, due profeti che nella loro epoca hanno cercato inutilmente di frenare la frana che stava per trascinare in un abisso popoli inermi e abbandonati a un destino che non avevano scelto. Durante il Covid avevo scritto pochi versi con la speranza che quel tempo sospeso avrebbe portato un po’ di pace: «Se non fossimo prigionieri della notte ostinata/ dal libro aperto delle ferite ancora sanguinanti/ invece di preparare la guerra/ tireremmo fuori la fragile voce del cuore/ il diritto di essere imperfetti/ il coraggio di amare». Auspicio che si è smarrito nel deserto! La guerra ha suonato puntualmente la sua fanfara. Se le poesie non hanno il potere di salvarci dall’insensatezza umana, almeno non ci fanno essere complici e ci permettono di avere un cuore pensante. La poesia può aiutare a non avere una coscienza collettiva dormiente per continuare a gridare «A noi la pace, please!».
Vogliamo sperare che i potenti sappiano fermare il vortice di bellicosità che ci avvolge e che non ci sia una “guerra che verrà”. Quella che c’è, insieme a tante altre, ha già seminato tanto orrore. Senza nascondere le incertezze in merito alle nostre possibilità di intervento per la pace, come primo passo, mi chiedo se non sia il caso di fare nostra almeno la parola dell’apostolo Paolo: «Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti».