Parlare di migrazioni oggi 

Dal 2011 vediamo titoli di giornale che parlano di invasioni e di emergenze, mentre il fenomeno è strutturale. E l’Italia ha sul suo territorio un numero di rifugiati inferiore a quello di altri paesi

Dalla Libia così difficile da raccontare al Mali e alla crisi nel Sahel, dall’impatto del cambiamento climatico nelle regioni subsahariane alla quotidianità del lavoro nei centri di accoglienza e di rimpatrio. Dibattiti, incontri, produzioni letterarie e cinematografiche, pensati all’interno del Festival delle migrazioni (a Torino dal 20 al 24 settembre 2023) per parlare di migrazioni, delle persone che le vivono e dei luoghi che attraversano. All’indomani della visita a Lampedusa della presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen e della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ci si domanda in che cosa si concretizzerà davvero l’impegno dell’Europa, quali saranno le proposte concrete e realizzabili per la risoluzione dell’“emergenza” arrivi. 

“Invasione”, parola al cui uso siamo abituati da anni quando si parla di migrazioni; una definizione che serve a rafforzare la decisione di fermare i flussi migratori invocando blocchi navali e rimpatri. Infatti si legge: «Lampedusa, ormai interamente occupata dagli immigrati tunisini»; «In meno di 24 ore, dopo 10 giorni di tregua, sono sbarcati in 1700»; «Decine di cittadini hanno protestato al grido “basta sbarchi, la nostra pazienza ha un limite”», «Le ronde bloccano gli immigrati e li riportano nella struttura dove li consegnano alle forze di polizia. […] si è sparsa la voce che nella notte che potrebbero essere allestite nuove tendopoli». 

Sembrano titoli di questi giorni invece si riferiscono al marzo del 2011, anno in cui la congiuntura della crisi tunisina provocò un aumento significativo dei flussi migratori. Eppure, come ci ricorda Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, «il numero di arrivi è simile ad anni come il 2011, il 2015 e il 2016, anni in cui crisi politiche, economiche e sociali portarono a un aumento delle partenze. La situazione, infatti, è paragonabile al 2011 quando, dopo la caduta del presidente Ben Ali, arrivarono in tre giorni circa 5000 persone. Con la differenza che in questi giorni è maggiore la concentrazione degli arrivi a Lampedusa attraverso la rotta del Mediterraneo Centrale, che ora costituisce circa il 70% di tutti gli arrivi in Italia». Lampedusa e i suoi abitanti vivono una situazione complessa che richiede risposte di policy specifiche e proposte credibili per affrontare fasi congiunturali in un quadro strutturale di flussi (e)migratori. 

Nel 2016 Giovanni Maria Bellu, giornalista, autore del libro I fantasmi di Porto Palo, si chiedeva: «L’approdo auspicato da anni – far uscire l’immigrazione dall’eterna emergenza e considerarla finalmente una delle ordinarie tematiche sociali del nostro Paese e del nostro tempo – sarà raggiunto dai media italiani?». Accadeva all’indomani di un incremento di flussi migratori e di un generale allarmismo mediatico sulla questione. Eppure, a distanza di anni, il contenuto che le parole portano dentro di sé è sempre lo stesso e, scemata l’emergenza, delle persone migranti non si sa quasi nulla. Quante persone hanno richiesto e ottenuto asilo politico, quante sono le persone rifugiate?
Provando a dare risposte per capire la portata del fenomeno, si scoprirebbe che, fino a luglio 2023, la Germania ha ricevuto una richiesta d’asilo ogni 447 abitanti, la Spagna ogni 483, la Francia ogni 729, mentre l’Italia ogni 947; inoltre si scoprirebbe che le persone rifugiate in Italia sono 5 ogni 1000 abitanti. L’Italia è tra i paesi agli ultimi posti in Europa, insieme a Slovenia e Ungheria; Repubblica Ceca ed Estonia sono in testa con 41 persone rifugiate e 31 ogni 1.000 abitanti .

«Gli sbarchi sono diventati un punto fermo nel nostro immaginario postmoderno. Quasi un corollario della fame, dell’immigrazione e delle politiche di controllo del vecchio continente. Di conseguenza i naufragi che avvengono sempre più di frequente costituiscono la nota dolente […] Ormai generano assuefazione. Raramente indignazione». Così scrisse Alessandro Leogrande nel libro Il naufragio, in cui ricostruì la tragedia del Venerdì Santo: il naufragio della nave “Kater i Rades”, speronata dalla nave “Sibilla” della Marina Militare italiana il 28 marzo 1997 nel canale di Otranto, in cui morirono 57 persone. Sono oltre 31.000 le persone morte nel Mediterraneo dal 2014 a oggi, 22.200 sulla rotta centrale del Mediterraneo, quella che coinvolge le frontiere marittime di Libia, Tunisia, Malta e Italia.

Il 26 settembre, in occasione della commemorazione del decennale del naufragio del 3 ottobre, si inaugura a Milano, presso il Memoriale della Shoah, una mostra, «La memoria degli oggetti. Lampedusa, 3 ottobre 2013. Dieci anni dopo», in cui vengono esposti gli oggetti rinvenuti sui corpi dei naufraghi. Una bussola, una macchinina rossa, una boccetta di profumo, uno specchietto, un telefono cellulare. La forza di quegli oggetti è che ci costringono a riconoscere che la nostra vita è piena delle stesse cose… Dare dignità a quegli oggetti significa fare un passo verso la costruzione di una memoria condivisa, una memoria comune, quella degli esseri umani.