La vera emergenza è l’educazione

Di fronte alle azioni violente commesse da adolescenti, la risposta puramente punitiva elude il problema. Più utile è avvicinare fra loro vittime e responsabili del reato; e serve una presenza di supporto rivolta ai genitori

Con il Decreto Legge Caivano il governo cerca di evidenziare i valori della destra vera e profonda che in questo primo anno hanno faticato a emergere. Un tentativo mal riuscito visto che da tempo Matteo Salvini chiede l’abbassamento dell’imputabilità dai quattordici ai dodici anni. La norma non è passata perché alcuni provvedimenti avrebbero messo in crisi il sistema giudiziario minorile costruito sull’idea del recupero dei trasgressori minorenni. Comunque il Decreto sembra avere raggiunto il suo scopo introducendo nell’immaginario collettivo l’idea che i ragazzi che sgarrano debbano essere perseguiti penalmente come unica strada da percorrere per ottenere risultati.

Ma l’Italia, con il suo sistema fondato sulla rieducazione e non sulla pura condanna, si è guadagnata nel mondo una posizione di prestigio. Una legislazione ispirata da grandi figure – basti pensare al giudice minorile Gian Paolo Meucci, amico di don Lorenzo Milani – che si sono battute per un’idea alternativa alla semplice contenzione e hanno saputo coinvolgere le Forze dell’ordine in una visione mirata al recupero e alla prevenzione, applicando misure alternative. 

Due esempi per tutti. La mediazione penale, una delle bandiere del nuovo Codice Cartabia, sposta lo sguardo sulla necessità di condurre il ragazzo reo a comprendere la sofferenza della vittima per comporre un quadro che ha al centro l’empatia del criminale verso la parte lesa, in funzione di un reale cambiamento. Altrettanto importante la messa alla prova nel caso di reati di minore allarme sociale. Entrambi i provvedimenti vanno nella direzione del risarcimento alla comunità e non intendono fare del ragazzo colpevole un delinquente tout court. L’Italia ha infine diminuito il numero di carceri minorili (sempre troppe!) grazie all’idea che la detenzione non costituisce la soluzione del problema, poiché rischia di trasformare in criminali i ragazzi difficili, problematici e con situazioni familiari e sociali spesso disperate. 

Il disagio dei ragazzi non può essere considerato un problema di ordine pubblico. Puntare sulla repressione genera idee distorte. A esempio la minaccia, emersa nella riunione di governo, di punire con l’incarcerazione i genitori che non mandano i figli a scuola. Una soluzione davvero curiosa, visto che l’Italia detiene il record europeo dei ritirati, ragazzi e ragazze dai quindici ai ventiquattro anni che non studiano e non lavorano (i famosi NEET). Una situazione che non si può liquidare come dispersione scolastica poiché generata da un malessere profondo che li tiene chiusi in casa. Ne ho seguiti diversi e non penso proprio che i genitori di questi ragazzi debbano essere destinati alla detenzione. L’emergenza minorile non corrisponde a quella dell’ordine pubblico. Negli ultimi decenni i numeri, comparati con i dati del resto d’Europa e del mondo, continuano a restituire l’immagine di un’Italia in grado di gestire con efficacia la trasgressività adolescenziale.

Converrebbe in realtà volgere lo sguardo sulla vera emergenza ossia la questione educativa in modo da aiutare i genitori e la scuola a vivere il loro compito all’interno di una comunità più ampia. Oggi, quando un minorenne sgarra, ci si avventa sui genitori, come se questi fossero isole e non appartenessero alla nostra società: siamo tutti immersi in una profonda fragilità educativa. Negli ultimi anni mi sono speso a chiedere un maggior impegno istituzionale a sostegno dei genitori. Con il mio istituto siamo impegnati a diffondere le Scuole Genitori sul territorio italiano, senza purtroppo un supporto istituzionale specifico né contributi economici adeguati. Più volte ho lanciato appelli affinché nei reparti di maternità i genitori possano avere indicazioni su come educare i figli. Si è preferito andare verso la medicalizzazione del disagio a cui ora sembra sovrapporsi addirittura una visione penale. Se questa interpretazione prevalesse, ci allontaneremmo ancora di più dalle radici profonde della questione.

L’educazione intesa come capacità di organizzare le fasi di crescita delle nuove generazioni appare sempre più fuori dall’immaginario comune. Surreale a esempio discutere se un piccolo di sei o sette anni debba utilizzare o meno lo smartphone; altrettanto inquietante che l’Italia sia l’unico paese al mondo che consente a un bambino di otto anni di avere un numero di telefono personale. Come se le condizioni legate alla crescita si fossero progressivamente perse in un fai-da-te alimentato da social network e influencer. Il business la fa da padrone sui bisogni educativi. Occorre un ripensamento per chiederci quali siano le vere priorità per i nostri ragazzi e le nostre ragazze.