Che ne è stato del sogno di MLK?
Il 28 agosto di sessant’anni fa il celebre discorso del pastore battista: possiamo immaginare un futuro in linea con le sue parole?
Fu una notte insonne per Martin Luther King jr, quella precedente alla grande manifestazione del movimento per i Diritti Civili, convocata al Lincoln Memorial di Washington il 28 agosto 1963. Sentiva l’importanza del discorso ed era in ansia per gli esiti politici della grande protesta per la libertà. Dunque, il celebre discorso «I have a dream», non fu frutto del sogno di quella notte. Anzi, la seconda parte di quel discorso, era già conosciuto da molti del tuo entourage perché lo aveva pronunciato altre volte.
Ma andiamo per gradi. Nella prima parte del suo intervento, King si rivolgeva ai manifestanti soffermandosi sul significato storico del momento: erano trascorsi 100 anni dal giorno in cui Abraham Lincoln aveva proclamato l’emancipazione dalla schiavitù. 100 anni trascorsi invano, affermò King, perché le discriminazioni, specie nel Sud, non erano terminate e i neri costituivano la maggioranza della popolazione povera della nazione. E qui, King, sceglie la metafora dell’assegno: «Siamo venuti per incassare un assegno… il pagherò conteneva la promessa che a tutti gli uomini, ai neri e ai bianchi, sarebbero stati garantiti questi diritti inalienabili: “Vita, libertà e ricerca della felicità”». In un paese a capitalismo avanzato, il “pagherò” aveva il peso di un impegno inderogabile. Ma dopo 100 anni – dichiarava King – il nero deve prendere atto di un imbroglio. L’assegno era senza copertura. Eppure, l’America è un immenso oceano di benessere materiale, in cui la condizione dei neri restava quella di un’isola solitaria di povertà. L’America, secondo King, era sul punto di una bancarotta morale. Ma la banca della giustizia non potrà mai essere in fallimento, continuava King. Altrove, per affermare questa sua convinzione aveva usato la frase: «L’arco dell’universo morale è lungo ma inclina verso la giustizia!».
Dunque, il sogno di King era un sogno a occhi aperti che prefigurava un futuro di trasformazione del paese nel segno della giustizia, della libertà e della eguaglianza, mescolato con il realismo di ciò che doveva essere fatto subito per perseguire l’obiettivo.
In 17 minuti, King ebbe la capacità di catturare l’attenzione e smuovere i sentimenti profondi di quanti lo ascoltavano, non solo a Washington, ma in ogni angolo del paese. Fu un parlare alla nazione, ma anche un chiaro monito a tutti coloro che desideravano essere attori di questa trasformazione nel segno del rispetto per se stessi. Un rispetto per il quale bisognava a ogni costo evitare che la frustrazione per essere stati soggiogati, sfociasse in risentimento e cieco odio. Il sogno era quello di una lotta nonviolenta, capace di guardare a ciò che il Paese era chiamato a diventare, a partire dei suoi documenti fondanti e della volontà dei suoi architetti: Lincoln, ma anche Jefferson.
Il sogno evoca immagini, similmente a poemi biblici come quello riportato in Isaia 35, nel quale il deserto si trasforma in un’oasi ricca di acqua e di colori. Così King evoca le rosse colline della Georgia, le montagne rocciose del Colorado, i pendii sinuosi della California: un sogno pieno di storia e di geografia, che comprendeva i luoghi in cui le autorità avevano manifestato il loro ottuso attaccamento alla ideologia razzista. Un sogno con nomi e cognomi di coloro che intendevano tenere in piedi l’oppressione delle leggi razziste Jim Crow. Era un sogno a occhi aperti consapevole che il cammino verso la giustizia era lastricato di difficoltà. King non esprimeva compiacimento nella sofferenza, ma dichiarava che quella “immeritata” avesse un carattere redentivo.
Il sogno di King era quello di un’America ecumenica, in cui cattolici e protestanti, ebrei e gentili, neri e bianchi, potessero prendersi per mano e cantare lo spiritual della libertà come approdo di liberazione. Era un sogno allargato alle future generazioni in cui tutti potessero essere riconosciuti per le proprie capacità e insieme nutrirsi al tavolo della fraternità.
A 60 anni da quel discorso, che ne è stato di quel “sogno”? E la domanda va oltre gli Stati Uniti d’America per estendersi a tutto l’Occidente e al mondo intero. In questo momento, mi pare, che il mondo viva un incubo che è la somma di due sogni distorti e contrapposti. Il sogno della “Grande Russia”, che ha mire espansionistiche, e si nutre di un giudizio di immoralità su tutto l’Occidente. Un sogno che minaccia paesi che reclamano la propria indipendenza, primo fra tutti l’Ucraina, decisa a non indietreggiare rispetto al suo diritto all’autodeterminazione.
Dall’altra parte il sogno dell’America First incarnato da Trump, “sogno” appoggiato anche in ambienti del fondamentalismo cristiano. Un incubo questo che ha diverse declinazioni nei sovranismi che dilagano in Europa.
E le chiese? E noi? Siamo capaci di sogni inclusivi, a occhi aperti, nutriti di immagini bibliche ma capaci di lucido realismo? Un sogno che scenda dalle Alpi lungo gli Appennini, che coinvolga il Sud, minacciato da nefaste riforme regionali. Riusciamo a declinare un sogno che si ispiri ai principi della nostra Costituzione, compreso il ripudio della guerra di cui parla l’articolo 11? Riusciamo ad immaginare un futuro che tuteli la vita per le future generazioni? Coltiviamo la fantasia politica di un sogno ad occhi aperti che includa gli immigrati, i più fragili e tutte le minoranze? Sapremo anche noi denunciare l’assegno scoperto che riguarda il sostegno ai più poveri e deprivati del nostro paese mentre i soldi non mancano per armi ed eserciti?
Come per tutti i veri profeti e profetesse, la parola di King si muove su un doppio livello, quello del contesto storico e culturale da cui ha avuto origine, e quello universale, capace di sfidare le nuove situazioni di ingiustizia che attanagliano il mondo. Una cosa è certa, non si dà futuro, se non sapremo declinare, anche nel nostro tempo, un sogno inclusivo, di un paese, una Europa, un mondo, bisognoso di giustizia per tutti i poveri e per il creato intero.