Étienne de La Boétie, amico, poeta e pensatore
Il 18 agosto 1563 – 460 anni fa, dunque – moriva, a neppure 33 anni, il poeta, pensatore e giurista, amico del grande Montaigne.
Il 18 agosto 1563 – 460 anni fa, dunque – moriva, a neppure 33 anni, il poeta, pensatore e giurista Étienne de La Boétie, amico del grande Montaigne.
Proprio l’autore degli Essais ha reso immortale la loro amicizia, una delle più belle di tutti i tempi. Ascoltiamo: «Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: “Perché era lui; perché ero io”. […] Ci cercavamo prima di esserci visti e per quel che sentivamo dire l’uno dell’altro, il che produceva sulla nostra sensibilità un effetto maggiore di quel che produca secondo ragione quello che si sente dire, credo per qualche volontà celeste: ci abbracciavamo attraverso i nostri nomi. E al nostro primo incontro, che avvenne per caso, in occasione di una grande festa e riunione cittadina, ci trovammo tanto uniti, conosciuti e legati l’uno all’altro, che da allora niente fu a noi tanto vicino quanto l’uno all’altro». Una vera e propria amicizia amorosa, diremmo noi oggi. Con l’amore per il nome dell’altro che sembra precedere quello per l’intera persona.
E La Boétie scrisse giovanissimo, forse neppure ventenne, un saggio, pubblicato postumo, motivo di ispirazione per gli ugonotti e, in generale, per i calvinisti e in seguito quasi copiato dal grande ideologo e rivoluzionario giacobino Jean-Paul Marat, l’“amico del popolo” (a proposito di amicizia): Discours de la servitude volontaire ou le Contr’un. Perché il popolo, appunto, accetta di farsi servo, e di restar tale, dell’arbitrio di un tiranno o di pochi oligarchi? Nessuno, prima di lui, aveva posto la questione in maniera tanto netta e trasparente.
Poniamoci per un istante in ascolto: «la natura, ministro di Dio, la governante degli uomini, ci ha fatti tutti della stessa forma, e, a quanto pare, con lo stesso stampo, al fine di riconoscerci tutti, tra di noi, come compagni o piuttosto come fratelli […] ma piuttosto si deve credere che facendo così le parti, agli uni più grandi, e più piccole agli altri, essa volesse fare posto all’affetto fraterno, perché avesse dove esplicarsi, avendo gli uni potere di dare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Poiché quindi questa madre buona ci ha dato, a tutti, tutta la terra come dimora, ci ha sistemati tutti nella stessa casa». E quindi «non bisogna dubitare della nostra naturale libertà, poiché siamo tutti compagni, e non può passare per la mente a nessuno che la natura abbia messo chicchessia in servitù, avendoci tutti messi in compagnia». La servitù, evidentemente, nella prospettiva dell’autore, è un artificio, una finzione umana, qualcosa di innaturale. E ciò, si badi bene, senza che egli misconosca le differenze, le quali servirebbero, però, a rafforzare la coesione tra gli umani, vincolandoci ancor più l’un l’altro. Su di esse, invece, troppe volte si fa leva per giustificare la sopraffazione.
A conferma della prossimità che ci lega ad alcune pagine del passato, quasi a dispetto della distanza.