120760234_801075430662161_1843598931712679852_n

«Traditori»

«Per l’uscita di questo libro ci sono voluti quattro anni di lavoro di ricerca – rileva il giornalista e condirettore dell’agenzia Agi, Paolo Borrometi, autore di Traditori – Come fango e depistaggio hanno segnato la storia italiana (Solferino edizioni) –, un lavoro intenso, complesso per la mole di documenti citati nel volume. Si badi bene, il mio non è un lavoro storico, bensì giornalistico».

«Traditori», infatti, «contiene scorie di storia», ha ricordato Walter Veltroni in occasione di una recente presentazione.

Un libro che non parla solo di mafia e dei suoi rapporti con in poteri finanziari, politici, istituzionali, deviati e massonici; potremmo dire che il percorso è la cruda e semplice cronaca di ottant’anni di storia. Una storia fatta d’intrecci tra tante dimensioni come quella della strategia della tensione legata anche alle battaglie civili e politiche.

Un libro che intende disvelare complotti reali e non parlare di complottismi: «Un lavoro – dice Borrometi – che racconta la semplice e sostanziale verità dei fatti, alcuni ben noti e accertati», per entrare dentro ai «giochi»» di potere della mafia e della politica.

Un percorso che si dipana con quattordici capitoli in quattrocento pagine e che scandaglia il nostro Paese sin dallo sbarco americano in Sicilia: «lo sbarco della mafia raccontato da nonno Turi. Un paese – chiosa ancora Borrometi, che tra l’altro è anche il presidente di Articolo 21 liberi di… – che vede settemila condannati per mafia in un’Italia che conta 58,9 milioni di persone e dove il fenomeno mafioso è radicato negli interstizi della società».

Raccontare stragi, paure, sistemi, accordi, operazioni militari, infatti, «È complesso – come scrive nell’incipit Borrometi –. È devastante. Spesso lo è per chi racconta e prima ancora per chi legge. Raccontare ha un prezzo alto, troppo alto. Perché nel nostro Paese troppe cose, per “alcune” persone, non andrebbero raccontate. Tenendo la maggioranza all’oscuro è più facile compiere i crimini più efferati e nascondere i traditori. E allora, le “armi di distrazioni di massa” sono le più diffuse, come diffuse sono le considerazioni su chi s’impegna per la ricerca della verità».

«Coltivare la memoria è importante, necessario, fondamentale – ci dice ancora Borrometi –, così com’è importante non lasciare soli coloro che si ribellano alle ingiustizie. Che decidono di raccontare le periferie dimenticate. Di proseguire nell’imperterrita ricerca della verità e della giustizia. Nel mio piccolo tento di raccontare il nostro Paese, di illuminarne le incongruenze, i soprusi, il malaffare come quello delle agromafie, di non sottovalutare gli intrecci tra la mafia e la politica. La solitudine è per il giornalista d’inchiesta il nemico più grande. In passato, attacchi e diffidenza mi hanno pesantemente condizionato. Oggi, posso dire che i giornalisti italiani sono molto vicini al mio lavoro e sono un’importante scorta mediatica per tutti coloro che realizzano inchieste difficili e pericolose».

Paolo Borrometi è stato aggredito il 16 aprile 2014, qualche collega insinuò allora che egli volesse «diventare il nuovo Peppino Impastato».

Anche il discredito può essere un’arma.

Da molti anni Borrometi vive accompagnato in ogni suo movimento dalla scorta. Le reali minacce di morte, dopo le violenze fisiche, hanno imposto questo tipo di regime di sicurezza.

Domani a Torre Pellice a Una Torre di libri alle 18, in occasione della presentazione del libro, sarà possibile rivolgere alcune domande all’autore. L’incontro sarà moderato da Gian Mario Gillio, giornalista di Riforma – Eco delle valli valdesi e portavoce del Circolo Articolo 21 Piemonte. In collegamento Giuseppe Giulietti, già presidente della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) e oggi coordinatore nazionale di Articolo 21 liberi di….