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Riforma delle pensioni in Francia fra falsi miti e prove di forza

In Francia la riforma delle pensioni è diventata legge, ma gli scioperi e le manifestazioni continuano da più di quattro mesi. La rivolta di piazza ha colpito molto gli italiani, perché nel 2011 la riforma Monti-Fornero fu adottata praticamente senza colpo ferire. Come mai i francesi non accettano di riformare le pensioni, come è avvenuto in tutta Europa? E come mai non vogliono “andare in pensione a 64 anni” mentre da noi bisogna già aspettare di avere 67 anni?

In realtà, i mass media italiani hanno spiegato con una certa faciloneria le ragioni della rivolta. Per capire come funziona il sistema pensionistico francese, bisogna smettere di fissarsi con l’età pensionabile. L’età legale per andare in pensione è solo un’età minima, legata ai contributi versati, che sono l’aspetto veramente importante. Da questo punto di vista, in Francia non sono certo mancati i cambiamenti. Nel 1993, per raggiungere una pensione a “tasso pieno” i contributi sono passati da 37 anni e mezzo a 40 per il settore privato. Nel 2005, la riforma fu estesa al settore pubblico. Nel 2014, vi fu un ulteriore aggiornamento: 42 anni di contributi per chi è nato dopo il 1961, e in modo progressivo fino a 43 anni per chi è nato dopo il 1973.

Insomma, non è che tutti i francesi possano andare in pensione a 62 anni. Per chi non ha i contributi, la pensione di vecchiaia arriverà, come in Italia, all’età di 67 anni. Per chi vuole accedere al “tasso pieno”, invece i contributi richiesti sono maggiori che in Italia. Due esempi per chiarirci le idee. Una persona nata nel 1973, che ha iniziato a lavorare a ventun anni e senza interruzioni per 43 anni, andrà già in pensione a 64 anni. E per chi avesse studiato fino a 25, l’età della pensione scatterà solo a 68 anni. Certo non mancano i casi particolari (come quello dei netturbini e di altri mestieri usuranti) che è difficile trattare in questa sede. Ma allora perché tante proteste per una riforma sostanzialmente inutile, perché di fatto è già in vigore?

Intanto, lo spostamento dell’età minima penalizzerà soprattutto chi ha iniziato a lavorare da giovanissimo (e spesso si tratta di mestieri meno qualificati): chi ha iniziato a lavorare a 18 anni, avrebbe raggiunto i 43 anni di contributi a 61 anni. Spostando l’età minima a 64 anni, tale persona dovrà lavorare per ben 46 anni. Il regime generale sarà quindi molto rigido, senza possibilità di pensionamento anticipato per chi avesse già raggiunto i criteri necessari. Mancano insomma i dispositivi correttivi i cui tanto si è parlato in Italia (quota 100, poi quota 103, opzione donna ecc.).

Ma non c’è solo questo. Alle due estremità, abbiamo i giovani che hanno iniziato a lavorare “tardi” (se così si può dire dei venticinquenni o trentenni) e che vedono allungarsi a dismisura l’età lavorativa e i senior licenziati tra i 55 e i 60, e che hanno grandi difficoltà a ritrovare un impiego. Come riusciranno a maturare 43 anni di contributi? E la situazione non si aggraverà in futuro, con l’invecchiamento della popolazione? Si tratta di preoccupazioni e problemi comuni alla maggior parte dei paesi europei.

Come si capirà, la Francia non è il paese dei balocchi di cui si favoleggia: già oggi, le esigenze in termini di attività lavorativa sono più elevate che in Italia. Allora perché Macron e il suo governo si incaponiscono con la riforma, pur non avendo una vera e propria maggioranza parlamentare? Probabilmente per una questione di prestigio, per non cedere alla piazza. Ma questo aggraverà la sua impopolarità. Tre anni fa, con l’arrivo del Covid, il presidente francese si era impegnato a bloccare la precedente riforma delle pensioni. Ora la popolazione chiede il rispetto delle promesse. Riproponendo il braccio di ferro con i sindacati e l’opinione pubblica, Macron ha cercato la prova di forza. Ma per il momento non si intravede via di uscita e le cose rischiano di finir male.


Foto di François Goglins