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L’islam in Italia a un cambio d’epoca

Ramadan mubarak, amici e amiche musulmani! Che questo mese, così sacro nella vostra tradizione, vi doni benedizioni e ristoro! Un tempo che può risultare utile anche a chi musulmano non è per fare il punto sulla presenza islamica in Italia, e sullo stato di salute del dialogo fra cristiani e musulmani.

Tema, quest’ultimo soprattutto, cruciale, e delicato; che richiede umiltà e pazienza – personalmente lo sperimento da anni come una benedizione, sia pur faticosa – e che ci chiama a dotarci di uno sguardo lungo, e il più possibile sgombro da pregiudizi. Anche perché non è da molto che il nostro paese si trova a confrontarsi con un nuovo pluralismo culturale e religioso, di cui fa parte l’islam: che anzi ne è diventato una sorta di idealtipo, e spesso di bersaglio polemico. In altri termini: l’islam, i problemi che porta o comporta (o si ritiene porti e comporti), è ormai diventato il modo per nominare e discutere un crescente pluralismo le cui implicazioni non sappiamo ancora sollevare e affrontare in quanto tali.

Mi pare infatti che non abbiamo ancora metabolizzato il dato oggettivo del ritorno delle religioni sulla scena pubblica, la loro presenza e visibilità nello spazio pubblico nazionale, pur ampiamente secolarizzato. Da questo punto di vista, il caso dell’islam, non solo per questioni numeriche, può offrire notevoli spunti di riflessione. In Italia esso ingloba al suo interno provenienze etniche differenziate, un discreto numero di autoctoni (i convertiti, o “ritornati”, come preferiscono definirsi), le seconde generazioni nate qui, e un’ampia serie di ambiti in cui si propone e fa immagine, spesso suo malgrado: dal rinascere dei fondamentalismi ai rapporti di genere, dalle relazioni tra Stato e comunità religiose alle dinamiche di mixité matrimoniale.

Perché quello che era una volta l’islam in Italia sta diventando semplicemente, ma con conseguenze importanti, durature e ritengo irreversibili, la porzione italiana della umma islamica. Un work in progress destinato, inevitabilmente, a influenzare toni, modalità e registri del dialogo interreligioso cristiano-islamico. Anche qui, in effetti, stiamo attraversando un “cambio d’epoca”, alle spalle ormai le stagioni pionieristiche. Per fare solo alcuni esempi a me cari, la Giornata ecumenica del dialogo del 27 ottobre ha ormai più di trent’anni e ha messo radici, anche se purtroppo ha sofferto della scomparsa, esattamente due anni fa, del suo maggiore promotore, Giovanni Sarubbi; l’impegno di don Giuliano Savina, direttore dell’Ufficio ecumenismo e dialogo della Cei, prosegue instancabile, e lo scorso giugno ha portato oltre cento fra cristiani e musulmani a Lampedusa, per il terzo incontro nazionale islamo-cattolico, sul tema della cittadinanza comune; mentre il modello dei Corridoi umanitari, ideati da Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, Tavola valdese e Comunità di Sant’Egidio, avviatisi dal 2016, è ormai riconosciuto come l’unico credibile per rispondere adeguatamente alla crisi dei migranti.

Sono, ripeto, appena alcuni esempi di buone pratiche, in grado peraltro di accreditare la tesi secondo cui l’islam italiano sta vivendo processi lunghi di inclusione e integrazione sostanziale (pensiamo alle aule scolastiche), ma nello stesso tempo è sottoposto a tutt’oggi a situazioni di percezione conflittuale talvolta esasperata. Ecco perché al dialogo non si dà alternativa. Ma avrebbe bisogno di più impegno di base, maggiore coraggio, di un investimento più ramificato e diffuso. E, semmai, di uno sguardo ampio, in dimensione planetaria: rimando, a esempio, al fascicolo della rivista Concilium dedicato ai «Segni di speranza nel dialogo islamo-cristiano» (n.4, 2020); ma anche al recente, bellissimo libro di Fadi Daou, presbitero maronita, e Nayla Tabbara, teologa musulmana, L’ospitalità divina e la fraternità umana (Qiqajon, 2022).

Entrambi libanesi, insieme hanno ideato Adyan, fondazione il cui nome arabo significa “religioni”, e si lanciano qui in un’avventura intellettuale definibile come “teologie in dialogo”: in cui ciascuno, secondo la propria tradizione ma in modo congiunto, pensa teologicamente la differenza di fede a partire dall’esperienza dell’incontro spirituale con un altro credente, ma diversamente, nel Dio unico. Le domande che si pongono, suggerendo risposte articolate, sono più che mai ineludibili per chi crede nel dialogo: come vedono il Corano e la teologia musulmana i cristiani? Come legge il cristiano, in base alla sua fede, i musulmani e i non cristiani? E, a partire dalla Dichiarazione di Abu Dhabi (2019), che cosa rappresenta la fratellanza umana, nella sua dimensione interreligiosa e universale, sul piano delle due fedi, e quali ne potrebbero essere le conseguenze spirituali, etiche e pratiche?