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Le tante colpe delle foibe

Il dieci febbraio cade la Giornata del ricordo, solennità civile nazionale che punta l’attenzione sui massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata. Ogni anno è un’occasione di accesi dibattiti e polemiche, per l’uso molto strumentale che ne viene fatto, soprattutto in ambito politico. Nella trasmissione Cominciamo Bene di RBE è stato intervistato il coordinatore delle attività didattiche e di formazione di Istoreto (Istituto piemontese della Resistenza) e professore di storia Riccardo Marchis, nel tentativo di trovare la distinzione tra i fatti storici e il carico simbolico e politico che si portano dietro.

Cosa furono le foibe?

«Si tratta di uccisioni di massa che si realizzano in due diverse tornate nelle terre giuliano dalmate, la prima durante la crisi dell’8 settembre ‘43, con la caduta delle istituzioni italiane; e poi nella primavera del ‘45, al termine delle ostilità. Ad operare queste uccisioni sono le formazioni dell’esercito di liberazione jugoslava. Il termine foibe ha assunto anche una valenza simbolica e un uso estensivo. Per foibe si intende il luogo di occultamento delle vittime, che trovarono la morte in diversificati modi: fucilazioni, annegamenti, stenti nei campi di concentramento. Le vittime non furono solo italiane, ma anche componenti popolari slovene e croate, potenziali oppositori del nascente regime. Un tema caldo e oggetto di diatribe è la quantificazione delle vittime. Gli storici si sono orientati su una misura vicina alle 5mila, e sicuramente non superiore alle 10mila, che sono numeri su cui insistono forme di propaganda. Questo comunque non diminuisce la gravità dei fenomeni: si caratterizzano come dei crimini di guerra».

A che cosa si possono attribuire queste uccisioni?

«Da una parte vi furono, in particolare nel ‘43, elementi di furore popolare, di rivolta dal basso verso l’alto, nei confronti della popolazione egemone, che da secoli era quella italofona. Da un altro, la resa dei conti contro il fascismo: perché il regime si era macchiato in quei vent’anni di colpe odiose. L’equazione italiano=fascista ha un uso estensivo e vengono colpite persone che con la resa dei conti nei confronti del fascismo c’entravano assai poco. Nel ‘45 invece gioca l’instaurarsi di nuovi poteri popolari, che conduce a fare una epurazione preventiva dei potenziali oppositori al nuovo potere. Quindi vengono colpite la classe dirigente italiana, gli amministratori, gli imprenditori, ma anche semplici sacerdoti, impiegati comunali, guardie, maestri: tutto ciò che poteva riportare a dei simboli dell’italianità. Il giorno del ricordo però ricorda l’esodo, il vero dramma di quelle terre. Il 90% delle popolazioni istro-venete se ne viene via, per scelta e certo anche sotto la spinta e la paura che le foibe incutono. Queste popolazioni decidono di venir via quando si rendono conto che la situazione non potrà mai più modificarsi».

Se vogliamo ci sono due foibe: l’episodio storico, e poi il discorso che avviene su questo tema da decenni. C’è una grande carica simbolica.

«Quello che mi interessa mettere in evidenza sono questi opposti fenomeni: enfatizzazione e tentativi di minimizzare. Sono in realtà due forme di subalternità alle logiche, secondo me, prettamente novecentesche. È una contesa che vede due opposti protagonisti, che ha nei presupposti un attaccamento a dalle visioni che sono ideologiche e che ci vengono proposte come attuali, nelle quali l’elemento comune è una mancata di aderenza e contestualizzazione alle vicende storiche che hanno segnato il lungo novecento istriano. Dal mio punto di vista l’istituzione del Giorno del Ricordo è un legittimo, per quanto tardivo, riconoscimento alla memoria degli esuli, che ebbero a pagare uno dei maggiori pesi della sconfitta italiana nella guerra fascista. Ma rappresenta anche l’occasione per parlare di un fenomeno di magnitudo gigantesca, che attraversa l’Europa nello stesso periodo: gli spostamenti forzati di persone, che coinvolgono milioni di persone alla conclusione del conflitto. Dovremmo essere grati a questi esuli che hanno conservato memoria del loro passato, perché ci consentono di tornare a una pagina mai attraversata dai paesi che ne furono al centro. Quindi secondo me è legittima l’istituzione della giornata, non è legittimo l’uso pubblico della storia di queste persone. Questa secondo me è una differenza importante».

Qual è quindi il quadro europeo più ampio?

«Questi fenomeni contrassegnano la cartina di Europa dal Mare del nord all’Adriatico. Tante popolazioni sono soggette a scambi forzati, per nulla regolamentati, che trovano l’assenso delle forze vincitrici. E avvengono in paesi che ancora non sono diventati comunisti; sono dei paesi all’interno dei quali questi spostamenti di popolazione sono legati all’onda lunga della sconfitta delle truppe tedesche. Ma ad essere spostate con la scusa di essere nazisti sono popolazioni che in quelle terre abitavano da secoli. E per quello che riguarda i tedeschi, che vengono spostati in particolare dai territori della Polonia e della Cecoslovacchia, abbiamo un fenomeno che coinvolge più di dieci milioni di persone con circa un milione di vittime. L’etichettatura tedeschi=nazisti diventa il pretesto per riuscire ad allontanare queste popolazioni. E questa è una situazione che si ripete in diversi paesi, anche perché se noi torniamo al caso italiano, dobbiamo ricordare che nel 1948, quando c’è la rottura tra Tito e Stalin, all’interno del nostro paese cala il silenzio più totale su queste vicende. Da una parte perché l’opposizione comunista non ha interesse a ritirare fuori una pagina che mette in cattiva luce la cedevolezza di Togliatti rispetto alle posizioni jugoslave. Al governo democristiano poi non interessa minimamente mettere in crisi un potenziale alleato contro la cortina di ferro di Stalin. Le ragioni dell’esodo vengono sostanzialmente rimosse. Gli istriani sono gli unici testimoni che tengono calda la memoria di queste cose. Chi trovano, almeno potenzialmente, in una profferta di alleanza? I neofascisti. Ed è una condizione che il mondo degli esuli rifiuta, sia chiaro. Solo quando gli storici, all’inizio degli anni ‘80, mettono mano a questo composito puzzle del confine orientale trovano queste memorie sedimentate, e avviano un percorso, accidentato e complesso: perché queste persone sono state lasciate da sole, nel silenzio, per decenni».

 

Foto di Dans