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Dall’Iraq percorsi civili per costruire un mondo diverso

Dall’inizio della guerra in Siria, cinque anni fa, e soprattutto dall’espansione del conflitto e del gruppo Stato islamico in Iraq, a partire dal 2014, un territorio che sembrava sepolto nella storia antica e nelle pagine della Bibbia è tornato a far parlare di sé: si tratta della Piana di Ninive, o Nīnawā, nell’omonimo Governatorato.

Nelle cronache dei giornali si è raccontato nei mesi scorsi dell’esodo di intere popolazioni, come la minoranza yazida o quella cristiana, oppure delle tragiche condizioni della popolazione di Mosul, capitale della regione, e nelle ultime settimane capita spesso di leggere delle minacce portate alla popolazione civile dalle precarie condizioni della diga di Mosul.

Eppure, non tutto in questo luogo si può spiegare con la storia antica e con le emergenze, perché esiste un mondo fatto di quotidianità, e anche di politica civile, che va ben oltre. Proprio per raccontare l’esistenza di forme di risposta non armata all’occupazione, la scorsa settimana l’associazione Un Ponte Per…, attiva dagli anni ’90 in Iraq, ha organizzato a Roma una tre giorni dedicata a questo tema e al progetto Niniveh Paths, dedicato alla resistenza civile e alle prospettive per il ritorno di profughi e sfollati al termine della guerra.

Mentre negli anni del regime di Saddam Hussein, nell’epoca di maggior forza del ba’athismo, la dottrina panaraba e laica fiorita nella seconda metà del Novecento in Siria, Iraq e Giordania, le differenze tra le varie identità del paese sembravano sfumate in una generica “identità araba nazionale”, con l’invasione statunitense del 2003 e la successiva trasformazione del paese, si è assistito a un fenomeno di differenziazione sempre più forte, che ha portato a un fenomeno polarizzato: da un lato, infatti, alla settarizzazione delle istituzioni, lottizzate ed esclusive sull’esempio libanese, ma dall’altro all’emersione di una società civile molto ricca di idee e posizioni, rappresentata dalle associazioni, dai movimenti giovanili, da quelli studenteschi e dai sindacati. «Sono persone – racconta Martina Pignatti Morano, presidente dell’associazione Un Ponte Per… – che non hanno perso la speranza di poter cambiare la loro società, nonostante siano nate e cresciute praticamente sempre in guerra, e dall’arrivo di Daesh in poi hanno cominciato a lavorare per prevenire le discriminazioni, i pregiudizi, tra vari componenti della società irachena».

Quando si pensa al Medio Oriente, si rischia di cadere in uno stereotipo che viene spesso applicato, altrettanto a torto, anche ai Balcani occidentali: quello di pensare che la violenza e il radicalismo siano un qualcosa di innato nella società. Tuttavia, l’esperienza delle comunità di Ninive racconta qualcosa di diverso. Per Pignatti Morano, infatti, «le violenze sono una risposta a problemi sottostanti, che vanno dal confessionalismo estremo ai crimini commessi dalle istituzioni. Le rivolte civili e non violente sono sempre state represse, e questo man mano ha portato le minoranze nelle mani delle milizie e dei gruppi fondamentalisti». Eppure, per quanto il senso di frustrazione possa essere forte, gli abitanti dell’area non sembrano essersi arresi. «la società civile, i leader religiosi, i leader tribali e gli enti locali stanno facendo moltissimo contro questa dinamica – ricorda Martina Pignatti Morano – e questa è la buona notizia che abbiamo portato in Italia con una delegazione di esperti iracheni e internazionali».

La piana di Ninive è un luogo nel quale sono passate molte culture, più che in ogni altro luogo dell’Iraq, e tutte hanno lasciato un loro contributo. Anche questo probabilmente permette di avere una società più sfaccettata di quello che viene spesso raccontato, e tra chi vive ancora in quel territorio e non l’ha abbandonato forzatamente, l’idea che sia possibile cercare vie diverse da quella armata per riuscire a liberarsi è ancora forte. «Ci sono due aspetti decisivi per capire il dinamismo della società irachena – racconta Ismaeel Dawood, cooperante iracheno e policy officer di Un ponte per… – : la protesta civile e non violenta per ottenere le riforme e per sconfiggere la corruzione, che ogni venerdì porta migliaia di persone in piazza Tahrir a Baghdad e in quasi in tutte le città dell’Iraq, tranne nelle aree sotto il controllo di Daesh, e poi i tanti esempi di solidarietà tra la popolazione irachena e i profughi, gli sfollati e le minoranze, come quella yazida».

Decisive, in questa sfida per “rimanere umani”, sono le donne, protagoniste non soltanto del tentativo di mantenere coese le famiglie, o i villaggi, «cosa che le donne fanno ogni giorno» secondo Dawood, ma anche perché le donne sono le uniche che già stanno lavorando per «preparare il ritorno nelle città liberate da Daesh per ricostruire la vita, permettere ai bambini di tornare a scuola, mettere insieme le persone, azioni concrete che le donne stanno già compiendo».

Mentre a livello politico nazionale e regionale c’è ancora molto da fare in termini di partecipazione femminile, a livello di società civile sono proprio le donne a coordinare i Consigli per la pace, secondo il principio per cui sono loro stesse a pagare il prezzo più alto di queste violenze e quindi rivendicando il diritto a essere parte del percorso di costruzione di una pace nei nostri territori. «Stiamo parlando di donne di varie etnie – racconta Ismaeel Dawood – , yazide, cristiane, sunnite, sciite, e anche questa diversità fa parte della risposta a chi dice che le donne non possono avere un ruolo più forte a livello politico».

La resistenza civile è fatta anche di storie, di racconti che ricordano da vicino quelli che hanno segnato le lotte di liberazione in Europa a metà del secolo scorso. Una di queste è quasi esemplare: «Una donna di Al`Alam, nella provincia di Salah ad-Din, araba e sunnita – racconta Dawood –, ha aiutato quattro soldati curdi iracheni, che non avevano avuto modo di affrontare Daesh perché erano rimasti tagliati fuori rispetto alla loro base e ai loro compagni. Questi soldati avevano cercato rifugio per qualche ora nella casa di una donna sunnita che poi alla fine li ha nascosti e aiutati per mesi, finché, sfruttando alcuni contatti anche all’interno della famiglia, li ha aiutati a tornare alla loro città, a Kirkuk. Ora, questi quattro uomini sono vivi e hanno detto che dopo la liberazione di questa città vorrebbero tornare a visitare questa donna che ha salvato loro la vita. Ma è pieno di queste storie questo periodo, e purtroppo finiscono sempre in secondo piano».

Oltre alle storie, nell’approccio del progetto Niniveh Paths va sottolineato il fatto di guardare sempre in prospettiva. Molto spesso, infatti, sentiamo parlare del conflitto siriano e iracheno attraverso uno sguardo molto a breve termine, legato all’opportunità di compiere interventi armati, sostituire un leader e poco altro. Tuttavia, la principale sfida per il futuro è quella di far sì che la grande massa degli sfollati e dei profughi possa ritornare a casa. Su questo, secondo la presidente di Un Ponte Per… Martina Pignatti Morano, «bisogna cercare di essere ottimisti, ma è necessario lavorare sui vari conflitti sottostanti e cambiare il tipo di risposta che paesi come l’Italia stanno dando, forme di reazione che hanno un costo molto alto e una capacità di risolvere i problemi molto bassa. Anche se il Daesh scomparisse da un momento all’altro, i conflitti sottostanti verrebbero a galla e riaprirebbero a tutti gli effetti una vera e propria guerra civile nel Paese». Anche nel campo degli interventi umanitari il futuro, anche prossimo, dovrà portare a una trasformazione. «Abbiamo dovuto aumentare il nostro impegno negli aiuti umanitari alla popolazione sfollata – conclude Martina Pignatti Morano – . L’abbiamo fatto con l’impegno dell’agenzia delle Nazioni Unite, Undp, ma anche con il sostegno dei fondi dell’Otto per Mille valdese, e per questo è importante che si passi dall’intervento iniziale di emergenza, la distribuzione delle bottiglie d’acqua agli yazidi che scappavano dal governatorato di Mosul, al sostegno adesso di tipo psicosociale alle donne vittime di violenza nei campi, ai progetti di educazione per i bambini, per far sì che non perdano l’accesso e il diritto all’educazione mentre sono sfollati. Queste sono misure che consentono a queste comunità di mantenere una propria resilienza e di prepararsi al ritorno». Anche per Ismaeel Dawood la speranza esiste, e ci sarà «finché ci sarà la voglia di creare un mondo diverso».

Foto: sadikgulec@IstockPhoto