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Trump e il voto evangelico

«Innanzitutto sono un protestante. Sono un presbiteriano e sono orgoglioso di esserlo. Molto orgoglioso».

Parole nette e chiare. A sorpresa, decisamente a sorpresa, a pronunciarle è il miliardario a stelle e strisce Donald Trump. La platea, sterminata, diecimila persone, è quella della Liberty University in Virginia, ateneo privato evangelico fondato negli anni settanta da Jerry Falwell, pastore battista e opinion maker della destra cristiana.

Mancano meno di due settimane all’inizio delle votazioni che porteranno gli elettori democratici e repubblicani statunitensi a scegliere all’interno dei rispettivi schieramenti i due candidati che si contenderanno in autunno il posto occupato da Barack Obama. Siamo in piena campagna elettorale per le primarie, che negli Stati Uniti d’America sono la norma, regolate da leggi statali, e non un’esotica novità, quindi al riparo dal rischio di manomissioni o errori.

I candidati impegnati in un frenetico pellegrinaggio di stato in stato, passano da un palco all’altro, da un banchetto ad una cerimonia, da un culto ad una messa, e cercano ogni stratagemma, ogni frase ad effetto per colpire l’uditorio, nella speranza di rosicchiare voti ai rivali.

E Trump, dotato di mezzi finanziari enormi, si dimostra un presenzialista di prim’ordine, sempre pronto ad una battuta, spesso infelice, sicuramente ad effetto, nel solco dell’assioma “Anche male, ma che si parli di me”.

Ma se è vero che un americano su quattro è un cristiano evangelico, allora il loro sostegno rischia di essere decisivo, almeno in sede di primarie. Dal palco dell’ateneo, passaggio obbligato dai tempi di Reagan per chi sogna la Casa Bianca, Trump si è quindi lanciato in una confessione di fede, che pare stonare con il passato libertino e con le attività speculative delle sue aziende di costruzione. Non è una novità: il mese scorso aveva affermato che era stato senza dubbio la Bibbia il libro che più aveva ispirato la sua vita, senza però essere in grado di citarne anche solo mezzo versetto.

A priori il magnate non ha nulla per sedurre l’elettorato evangelico degli States, storicamente orientato su posizioni conservatrici: se le questioni di lenzuola non solleticano oramai più granché nemmeno i puritani, le posizioni a favore dell’aborto invece rischiano di far girare le spalle a molti che vedono invece con simpatia le sparate anti immigrati e anti musulmani.

Nel partito repubblicano spiccano le candidature di ex ministri di culto quali Mike Huckabee, già pastore battista, o di Ted Cruz, figlio di un pastore sempre battista. Marco Rubio, altro nome forte, non perde occasione per ricordare la profonda fede cristiana evangelica che lo accompagna, così come fatto da Ben Carson, candidato di colore e fervente frequentatore della chiesa avventista del settimo giorno, o da Mitt Romney, mormone.

In un recente sondaggio il voto evangelico vede Ted Cruz, il grande oppositore del programma di sanità pubblica di Obama (chissà come questo no a cure pubbliche per tutti si concilia con il suo fervente pietismo cristiano ricordato ai media e all’uditorio ad ogni occasione utile) in vantaggio di pochi punti proprio su Trump, mentre gli altri candidati appaiono distanti. E se Trump a dispetto di ogni logica fa breccia anche nel cuore degli evangelical, oltre che in quello dell’America profonda, eccolo dunque in procinto di cavalcare anche quest’onda, sfoderando la propria fervente fede, pronto a spiccare il volo per affrontare molto probabilmente Hillary Clinton a novembre.

Le primarie sono oramai un grande circo Barnum in cui dire e promettere tutto e il contrario di tutto, sapendo che la larga parte dei voti sono cristallizzati, non mutano, ed è sulla fetta degli indecisi che bisogna agire. In ogni maniera, senza pudori, dichiarandosi un giorno tolemaico e un giorno copernicano. La Casa Bianca val bene una messa. O un culto.

Foto “Donald Trump (8567813820) (2)” by Gage Skidmore from Peoria, AZ, United States of America – Donald Trump. Licensed under CC BY-SA 2.0 via Wikimedia Commons.