Medical Hope: cura e speranza tra i rifugiati in Libano

Una risposta concreta alla sofferenza delle persone più vulnerabili. Ne parliamo con Luciano Griso, medico e organizzatore di un intervento che si fa sempre più articolato

 

Nato nel 2017 come parte del progetto dei Corridoi umanitari della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei), Medical Hope rappresenta una risposta concreta alla sofferenza dei rifugiati siriani in Libano. In un contesto sanitario segnato dalla privatizzazione e dalla totale assenza di assistenza per i rifugiati, il progetto ha preso forma dall’urgenza di non restare indifferenti. La sua forza risiede nella sua specificità: un approccio alla cura che nasce da una visione umana, etica e comunitaria, ispirata dalla tradizione evangelica. “Cura”, in questo contesto, non è soltanto diagnosi e terapia, ma relazione, ascolto, vicinanza; è attenzione ai bambini, agli anziani, alle donne, ai più fragili. A che punto è Medical Hope? Lo abbiamo chiesto al dottor Luciano Griso, rientrato in Italia circa un mese fa e nuovamente in missione per il Libano dal 20 luglio al 1 agosto.

 

«Durante l’ultima missione abbiamo visitato circa 120 persone, che rappresentano la nostra media abituale. Gli interventi si concentrano nella zona di Tripoli, nella valle della Bekaa, e nei quartieri sciiti; gli ambulatori si trovano a Shatila, a Sabra e raggiungono persone in condizioni di estrema povertà, come le migrants workers provenienti dall’Africa orientale o dal Bangladesh, donne che lavorano come collaboratrici domestiche in condizioni spesso di semi-schiavitù, completamente prive di assistenza sanitaria. Tra le patologie più diffuse ci sono: malattie genetiche, come la talassemia, dovute all’assenza totale di prevenzione; complicazioni post-partum, perché molte donne non riescono ad accedere in tempo agli ospedali o ricevono cure inadeguate, con conseguenze gravi come paralisi infantili; malattie croniche comuni, come diabete, patologie cardiovascolari e respiratorie. Queste ultime rappresentano un problema drammatico, perché i rifugiati non possono permettersi le visite, gli esami o le terapie necessarie».

 

Quali sono oggi le principali difficoltà operative che Medical Hope affronta?

«Il Libano soffre ancora una forte instabilità. La guerra tra Israele e Hezbollah non è affatto finita. Dal cessate il fuoco del 30 novembre, i bombardamenti israeliani nel sud del paese sono proseguiti, così come gli attacchi mirati. Si contano in media 2-3 morti al giorno tra civili, colpiti da droni mentre sono in auto, in motorino o persino in bicicletta. Questa situazione ci limita dal punto di vista logistico: non possiamo operare nel sud del paese né in alcune aree più a rischio della valle della Bekaa. Tuttavia, va detto che, viste le nostre dimensioni, queste restrizioni non incidono troppo sulle capacità operative generali. La più grande difficoltà è piuttosto il budget. Per ogni paziente in più che visitiamo occorrono cure, esami, terapie che non riusciamo a garantire».

 

Su quali risorse economiche conta il progetto?

«La sostenibilità economica è una sfida costante. L’opm dell’Unione delle Chiese Evangeliche Battiste in Italia finanzia la maggior parte del progetto dal 2017. Questo supporto ci garantisce la continuità, anno dopo anno. Accanto ad esso, ci sono altri donatori: i Mormoni, la Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti, la Fondazione Betania, che finanziano piccoli progetti specifici; e poi donatori privati, che organizzano raccolte fondi a sostegno di singole azioni. Ci preoccupa la notizia che da novembre l’Acnur, in linea con le politiche europee, sospenderà ogni finanziamento ai rifugiati siriani. Ciò avrà impatto grave su tutto il sistema di accoglienza e assistenza».

 

Vi sono sviluppi nell’ambito dell’intervento sanitario?

«Sì, uno dei più promettenti è nato dalla collaborazione con la Dental Clinic dell’Università di Torino, che ha un settore dedicato alla cooperazione internazionale. Abbiamo avviato un progetto pilota di prevenzione odontoiatrica nei bambini, partendo da una scuola media nel campo profughi di Shatila. Dopo una formazione di base, abbiamo effettuato visite preventive e coinvolto insegnanti e famiglie – in particolare le madri – sull’igiene orale. I problemi emersi sono gravi: molti bambini non si lavano i denti e presentano già danni evidenti. Il progetto ripartirà con l’inizio dell’anno scolastico a settembre, e potrà contare su un sostegno della parrocchia di Sant’Alfonso (To), che destinerà 10 mila euro per l’acquisto di dentifrici, spazzolini e per coprire una piccola parte delle cure».

 

Lei è un medico in pensione. Cosa la spinge ancora oggi a mettersi in gioco con così tanta passione?

«È una domanda che mi viene posta spesso, e che mi mette sempre un po’ in imbarazzo. Non perché manchi una motivazione, ma perché non è facile trovare una risposta che sia davvero coerente, soddisfacente. Posso dire che nella mia vita ho sempre partecipato ad iniziative umanitarie, in Italia e all’estero. Le ho sempre vissute come parte integrante della mia vita umana e professionale. Sicuramente è stata determinante la formazione ricevuta nella comunità battista di Reggio Calabria, dove da ragazzo ho respirato una forte spiritualità orientata all’impegno concreto. Poi c’è stata la mia esperienza nel movimento studentesco del ’68, che mi ha fatto maturare una sensibilità politica e una coscienza legata ai temi del Terzo Mondo. Ma scavando più in profondità, credo che ciò che mi spinge sia la consapevolezza della mia stessa vulnerabilità. È una vulnerabilità diversa, certo, ma che in qualche modo mi accomuna alle persone che incontro. Si crea una sorta di fraternità fra persone vulnerabili. Credo che non ci sia una soluzione a questa condizione, se non al di fuori di noi. Non possiamo “risolverla”, solo attraversarla. E farlo insieme, legandoci agli altri, agendo con loro».