La violenza genera violenza

Prima di determinare il rancore altrui, sempre deprecabile, ricordiamoci delle responsabilità che l’hanno generato

Che il Medio-Oriente sia una polveriera lo sappiamo da anni. Solo che ci siamo abituati. Ci conviviamo. Abbastanza facilmente peraltro, da casa nostra è comprensibile.

Tullio Vinay, nel momento in cui ricevette il titolo di Giusto tra le Nazioni da parte dello Stato di Israele, non esitò a denunciare i crimini che venivano commessi contro i palestinesi.
Vinay, che a rischio suo e della sua famiglia negli anni della seconda guerra mondiale, pastore valdese a Firenze, di ebrei ne aveva salvati, non si sottrasse al compito profetico che gli toccava.

Perché, vedete, la voce profetica non è frutto di rapimenti mistici o di chissà quale spirito divino. È la voce di coloro che semplicemente si sforzano di capire le cose, non accontentandosi di lasciarle passare davanti agli occhi. La voce fuori dal coro, se preferite.

Da decenni l’odio cova in terra di Palestina. Un odio alimentato da soprusi commessi nei confronti di un popolo, quello palestinese, chiuso dentro una terra senza diritti.
Giustifica tutto ciò i morti dei giorni scorsi? Giustifica il terrore seminato dentro Israele?

No, nulla può giustificare la violenza ma, più di ogni cosa, dobbiamo ricordarci che è l’ipocrisia occidentale, quindi anche nostra, a dover fare i conti con questo conflitto.
Che non è nuovo. Né nuovo sento di chiamarlo non volendo passare per smemorato o, peggio, in malafede.

Il conflitto israelo-palestinese esiste ed il fatto che, negli ultimi anni, si fosse mantenuto più o meno carsico non significa che fosse terminato.
È chiaro che Israele avrebbe reagito. E lo avrebbe fatto con ferocia e con vendetta. Perciò non possiamo pensare che chi ha progettato l’attacco su larga scala delle scorse ore, non se lo aspettasse.

Purtuttavia dobbiamo anche riflettere, chiederci cosa spinga una parte sempre meno marginale di un popolo ad andare incontro alla morte certa pur di ricevere attenzione dal mondo.
Ora, la stampa li chiamerà terroristi, assassini, criminali. Perché il racconto di questa guerra ci fa orrore. Ci fa orrore immaginare che civili inermi siano stati assaliti senza avere il tempo di rendersene conto. Ci fa orrore che la routine sonnacchiosa del nostro fine settimana sia stata trascinata a forza dentro un’altra guerra. Tutto quel che ci viene rappresentato come ingiusto ci fa orrore. 

E cominceremo pure a dichiarare appartenenze, di fatto lo faccio anch’io in questo articolo dirà qualcuno. 

Il punto però è che la violenza genera violenza. Che i palestinesi non sono un popolo di pazzi, né un popolo di terroristi. Che la pace non si costruisce affamando gli altri; né costringendo il diritto di uno Stato alla verifica della volontà dei privilegi dello Stato accanto. 

Ciononostante è la voce profetica di Vinay a tuonare sulle nostre coscienze di credenti. Il 21 aprile 1982, all’ambasciata israeliana Tullio Vinay non esita: sto dalla parte di Abele perché «non dimentico gli oppressi, per convenienza o per semplice cortesia».
E continua: «Si può comprendere che dopo 2000 anni di dispersione e di persecuzioni gli ebrei abbiano desiderato avere una patria, ma per averla hanno dovuto toglierla ad altri. Hanno fatto pagare agli arabi le colpe degli europei e degli americani. Arriverei a comprendere questo se ne fosse seguita una politica di comprensione e di aiuto agli espropriati, ai vostri fratelli conterranei, una politica di buon vicinato, anche se rifiutati. Non c’è avversario che non possa essere vinto dall’amore. Israele ha fatto del deserto un giardino dell’Eden; perché non aiutare i palestinesi a fare altrettanto affinché il minor territorio fosse compensato dalla maggior qualità di esso?
Questa non è ingenuità, è semplicemente una politica diversa da quella abituale che manda in rovina il mondo.
Israele, invece, ha continuato con le sue annessioni, con repressioni sempre più crudeli, con rappresaglie in cui sono stati coinvolti anche le donne e i bambini.
È con profondo dolore che pronunzio queste parole proprio per l’amore che ho per il vostro popolo, amore che è sorto non soltanto quando eravate perseguitati e distrutti, ma anche prima. Ma per onestà verso voi e verso me, dovevo dirle».

Vedete, prima di esplodere nel giudizio contro chi osa pensarla diversamente. Prima di criticare chi obietta contro la disonestà del pensiero. Prima cioè di praticare lo sport del fare terra bruciata contro chi inarca almeno un sopracciglio, sport che così tanto bene sembra riuscire a tutti e tutte, bisognerebbe rendersi conto di far parte dei “tanti” che, normalmente, si fanno trascinare dal flusso degli eventi. Lasciandoseli passare davanti dicendo in cuor proprio: non è affar mio, non è un problema mio.

Ed invece l’odio è un problema nostro. Sempre e comunque. L’uso del potere per zittire il dissenso è un problema nostro. Anche delle nostre realtà ecclesiastiche di cui ci vantiamo e di cui vantiamo il piglio “democratico”. Per fare i conti con la violenza fuor di noi, abbiamo necessità di renderci conto della violenza che pratichiamo noi, di quella che suscitiamo noi. Prima di determinare il rancore altrui, sempre deprecabile, ricordiamoci delle responsabilità che l’hanno generato. E forse, dico forse, «non impareremo più la guerra».


Foto di Francesco Gasparetti