La parola umana: benedizione e ambiguità

Per i contemporanei, esattamente come per le generazioni successive, era ed è impossibile comprendere le parole di Gesù senza inserirle nella sua azione

Gesù, per quanto ne sappiamo dal Nuovo Testamento e dalle ricerche critiche, ha utilizzato il linguaggio in modo estremamente creativo: lo si può affermare nonostante le fonti, che sono per lo più in greco e rielaborate dalla chiesa primitiva, non ci permettano di accedere alle sue parole nella lingua (aramaica), né nella forma nella quale furono originariamente pronunciate. I dati accertabili permettono comunque di ritenere che egli, pur non avendo ricevuto una regolare formazione come dottore della legge, sapeva muoversi agilmente attraverso una molteplicità di generi: dalla discussione sulla Torah alla massima di saggezza, dall’esortazione morale al registro profetico. La sua “specialità”, tuttavia, erano le parabole: brevi racconti tratti in genere dalla vita quotidiana, che parlavano di Dio con efficacia molto particolare, non propinando dottrine conchiuse, bensì mobilitando la capacità interpretativa di chi ascoltava.

Per i contemporanei, esattamente come per le generazioni successive, era ed è impossibile comprendere le parole di Gesù senza inserirle nella sua azione: non soltanto l’alternativa tra dire e fare gli è completamente estranea, ma i due elementi vivono in un intreccio originario, che concorre a costituire l’identità profonda della persona del predicatore galileo.

L’uso del linguaggio, e dei linguaggi , compresi quelli del corpo, è una delle dimensioni della libertà di Gesù. Il rapporto con l’agire, poi, mostra bene che tale libertà genera conseguenze di ampia portata, con le quali sia Gesù stesso sia le persone che, a vario titolo, lo incontrano, devono fare i conti. Detto in altri termini, non particolarmente originali, ma credo inevitabili, la libertà di Gesù genera responsabilità. Il linguaggio umano non è onnipotente, ma ha una sua potenza che può essere liberante, ma anche velenosa. Un approfondimento particolare poi, che qui non è possibile, dovrebbe riguardare l’uso metaforico del termine “Parola” per indicare il rapporto del Nazareno con il Padre.

La chiesa cristiana, e in modo particolarissimo quella della Riforma , è dunque chiamata dal suo Signore a un rapporto intenso con le parole, declinato in base alle coordinate che abbiamo indicato. La chiesa riceve in dono una radicale libertà nei propri linguaggi. Essa non consiste soltanto nella ripresa dell’ampio spettro comunicativo proprio di Gesù, il che comunque costituisce di per sé un compito fascinoso ed esigente (chi ha provato, sa che non è così semplice, a esempio, inventare buone parabole), bensì è autorizzata a sperimentare anche forme di comunicazione caratteristiche delle culture nelle quali la fede è incarnata. Il monito bigotto a “non esagerare” con la libertà va respinto: la libertà, compresa quella linguistica, non è mai troppa, semmai è pervertita. Libertà non pervertita è quella responsabile. Qui il discorso si fa delicato e anche molto ampio. Posso solo limitarmi ad alcuni spunti, relativi a un codice del linguaggio comune: quello del politicamente corretto.

Il recente libro del generale Roberto Vannacci costituisce una difesa, indiretta e involontaria, ma efficacissima, delle ragioni del “politicamente corretto”. Le tutele che tale codice fornisce vanno ben al di là della buona educazione (che comunque è sempre meglio del suo contrario) e riguardano la vita delle persone: la violenza linguistica autorizza, e in molti casi produce, anche direttamente, quella fisica e quella socialmente organizzata. Il politicamente corretto aiuta a capire perché e in che senso il “vannacciano” sta all’italiano come la pornografia sta alla sessualità. Per tale ragione, lottare contro lo sdoganamento, ad esempio giornalistico e ancor peggio istituzionale (i social, invece, sono praticamente incontrollabili), di un linguaggio imbarbarito costituisce un compito civile di primaria rilevanza.

Per altro verso, il politicamente corretto, e ancor più il culto, a volte piuttosto servile, del quale può essere oggetto, non è privo di ambiguità. È possibile credere o far credere che esso, di per sé, sia sufficiente a promuovere il cambiamento; oppure codificarlo autoritariamente in una certa forma, per colpevolizzare i reprobi che non vi si adattano con la dovuta solerzia: ogni regime ha il proprio politicamente corretto.

La chiesa di Gesù tenta , come può, di vivere una libertà linguistica che includa una responsabilità sempre da reinventare. Certo, anche queste, di per sé, sono solo parole. Ma appunto di esse stiamo discutendo.