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Giornata del Rifugiato, l’arte e l’incapacità di guardare

Nato in Congo a Brazzaville nel 1973, René Bokoul ha iniziato a dipingere all’età di 11 anni. A 15 è entrato come allievo nella scuola di pittura di Poto-Poto, la più grande e famosa del continente africano, che ispirò Pablo Picasso per il suo stile cubista. Con il suo diploma di pittura ha poi lavorato con i più grandi maestri africani ed è stato vicedirettore del laboratorio della scuola. Segnalato al prefetto di Limoges dal presidente François Hollande per le sue doti artistiche, ha ricevuto il permesso di soggiorno in Francia. Oggi porta la sua arte in giro per il mondo. Il 16 giugno era a Torino, con alcune opere esposte nell’atrio del tempio valdese di corso Vittorio Emanuele. Una città, in cui Bokoul aveva già vissuto, dopo un passaggio non dissimile da quello di tanti altri richiedenti asilo, a noi spesso invisibili.

Bokoul “sotto la Mole” è rimasto per quasi tre anni, accolto dall’Associazione Mosaico, con cui ha collaborato. Poi, per fare il pittore, il suo cammino è proseguito verso la Francia, che gli ha riconosciuto grandi doti artistiche e umane.
La guerra, la fuga, la ricerca disperata di una casa possono distruggere un sogno. Invece René il suo sogno l’ha pienamente realizzato e oggi soggiorna in Francia “per competenza e talento” grazie alla mobilitazione di molti artisti, amici ed estimatori; un titolo raro che gli attesta il contributo offerto al paese che lo ospita. René Bokoul (il vero nome è Leticia Paterne Mahoungou) nel 2000 ha ricevuto anche la «Medaglia Picasso» dall’Unesco per il suo eccezionale contributo alla cultura.

Berthin Nzonza, presidente dell’Associazione Mosaico refugees – Azioni per i rifugiati, ci accoglie nel Salone valdese all’inaugurazione della mostra e dice che “galeotta” fu la richiesta di amicizia su Facebook per riaccendere la scintilla, ossia il legame tra lui e René. Al telefono, dopo lo scambio dei numeri, René dice a Berthin: «Avevi creduto in me e capito la mia arte, posso dirti che oggi sei in compagnia». Berthin dunque s’informa, naviga in rete, scopre quanta strada abbia fatto il suo vecchio amico. «René – prosegue Berthin –, arrivò a Torino più di 10 anni fa con un permesso di protezione umanitaria; quando decadde il permesso, al terzo rinnovo con la solita richiesta di un lavoro regolare (non la pittura, ndr), decise di dirigersi in Francia. Abbiamo deciso di invitarlo nel capoluogo piemontese per celebrare nuovamente insieme questa Giornata mondiale del Rifugiato, per tentare di aprire quelle che noi chiamiamo “finestre per l’Europa”».

– Che effetto le ha fatto tornare a Torino?
«Bello, ho molti ricordi. Emozionante tornarci in qualità di artista. L’Italia (e parte una piccola nota dolente, ndr) – gli italiani, precisa Bokoul – dovrebbero però sforzarsi di guardare con maggior profondità gli occhi delle persone che transitano all’interno dei confini, imparare a conoscerle. Non basta vederle. Quando un africano emigra dalla propria terra, lo fa per bisogno, per necessità: nel suo “bagaglio a mano” porta però con sé anche la sua umanità, la sua cultura, la sua professionalità. E perché no, anche il suo talento. La tendenza, invece, è quella di voler vedere il fenomeno migratorio come un unico “pacchetto” di cui i migranti, i rifugiati, i richiedenti asilo sono il contenuto. In pochi, ma ci sono, provano a fare uno sforzo e tentano di osservare il fenomeno attraverso lo sguardo delle persone: uomini, donne, giovani, bambini, diversi tra loro e con un portato esperienziale e vitale assolutamente unico e irripetibile».

– In Francia si è trovato meglio?
«Molti amici pittori hanno capito che “il cavalletto e i pennelli” erano la mia vita, la mia energia, che dentro alla tela passano tutti i miei sentimenti e i miei desideri. Sì, da questo punto di vista posso dire di essere stato compreso. Integrarsi non è mai facile e ogni paese presenta dei limiti in tema di accoglienza. Tuttavia, la rete che si è creata attorno a me è stata fondamentale».

Bokoul in Italia ha rischiato, come accade a tante altre persone in fuga per la vita, di esser considerato un irregolare, un «clandestino»: così li definisce la Legge Bossi-Fini ancora in vigore. Parola oggi messa fuori catalogo dai giornalisti italiani, fortunatamente. Invece l’arte per Bokoul è libertà, è un “premessaggio” universale: «Amo rappresentare la bellezza – ci dice con un bel sorriso –, amo l’universo femminile, la fertilità, penso sempre a mia madre e ai suoi colori indossati con fierezza. I colori in Africa sono messaggi, sono energia, vitalità, forza».

– Sta dicendo che l’Africa è donna?
«Sì, l’Africa è donna. Il blu è il colore che rappresenta la sua forza interiore. A Torino ho portato alcune opere alle quali tengo molto: una è l’immagine di Gesù, al suo fianco ho posto il ritratto di Leonardo Da Vinci: due persone che in un certo senso, e in modo diverso, hanno mostrato un mondo diverso e possibile».

– La Giornata mondiale del rifugiato è caduta quest’anno a pochi giorni da una terribile e nuova tragedia vicino alla costa greca; sono oltre 1200 i morti (accertati) in mare in questi ultimi sei mesi. Il prossimo ottobre saranno ricordati i dieci anni dalla tragedia di Lampedusa (un dramma che fece attivare alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia un Osservatorio sulle migrazioni nell’Isola; aprire una Casa delle culture a Scicli e far partire i primi Corridoi umanitari ecumenici). Recenti, Bokoul, sono anche i morti di Cutro: che cosa si sente di dire?
«Mancano davvero le parole. Sono tragedie che si scontrano con l’aridità di chi non vuol vedere, di chi non vuol capire. Quando a sera rientro a casa, vivo un disagio e avverto un terribile senso di colpa perché io sono fortunato, posso sedermi sul divano, posso scegliere il cibo che desidero per la cena. Non riesco a non pensare alle persone in balia del mare, immagino le loro paure che sono poi le mie, penso all’incertezza che vivono rispetto al futuro. Poi penso a chi muore e a chi resta in vita senza i suoi cari. Penso all’Europa, che dovrebbe immediatamente prendere in mano la situazione mettendo in atto politiche serie di accoglienza, di soccorso in mare. Non c’è più tempo per pensare a cosa fare, si deve agire. E molti, fortunatamente, già lo fanno».


Nella foto a sinistra Berthin Nzonza dell’Associazione Mosaico e a destra l’artista René Bokoul