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Italia, Libia e Malta di fronte al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite

La questione migratoria è stato uno dei grandi rimossi della politica degli ultimi mesi, schiacciata da altre priorità e soprattutto dalla crisi sanitaria ed economica. Tuttavia, nelle ultime settimane si è tornati a prima a discutere del rifinanziamento della cosiddetta Guardia Costiera libica e poi negli ultimi giorni sull’aumento degli sbarchi sulle coste italiane.

In particolare, l’aumento degli arrivi via mare da Libia e Tunisia hanno portato esponenti politici, tanto della maggioranza quanto dell’opposizione, così come degli enti locali, a parlare di una situazione insostenibile e dell’impossibilità di gestire numeri in crescita. Eppure,

Certo, l’aumento degli sbarchi rimane notevole, se guardiamo ai dati del 2019 e del 2018. Quest’anno nel solo mese di luglio sono arrivate via mare oltre 5.000 persone, contro le 1.088 del 2019 e le 1.969 del 2018. Tra le cause principali di questa crescita va citata la crisi economica dovuta alla pandemia, ma non va dimenticata la guerra civile in Libia, molto lontana dalla soluzione e che porta con sé le sistematiche violazioni dei diritti delle persone straniere nel Paese. Eppure, i numeri registrati in queste settimane sono comunque molto lontani da quelli registrati nel picco del flusso, fra 2014 e 2016, quando a luglio arrivarono ogni anno più di 20.000 persone in cerca di protezione internazionale. Lorenzo Trucco, avvocato e presidente di ASGI, l’associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, afferma che non si possa parlare seriamente di una situazione ingestibile. «I dati sono sotto gli occhi di tutti: l’Italia è uno dei paesi che a livello europeo ha un numero tra i più bassi di richieste di asilo. C’è stato un incremento negli arrivi, ma siamo su livelli lontanissimi dall’essere ingestibili. È deprimente come l’approccio a un tema così complesso e anche difficile, non voglio eludere il tema, sia di così basso livello».

Proprio parlando di Libia, recentemente ASGI, insieme al Cairo Institute for Human Rights Studies, ha presentato un ricorso contro Italia, Malta e Libia di fronte al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite per conto di due persone il cui diritto di lasciare la Libia è stato violato dalle intercettazioni e dal ritorno forzato in Libia effettuato appunto come dicevamo dalla cosiddetta guardia costiera libica. Su quali basi si fonda?

«È il frutto di un percorso iniziato già da tempo. In particolare abbiamo posto in essere questi due progetti chiamati Sciabaca e Oruka con lo scopo di incrementare i contatti con le società civili africane. Quindi vuol dire rapporti con avvocati, con organizzazioni non governative, con ricercatori, con cliniche legali e con tutto un mondo che esiste in Africa. Questo è imprescindibile per portare avanti non solo la conoscenza ma anche per arrivare ai giuristi a effettuare alcuni passi più squisitamente giuridici.

Questi rapporti si sono cementati nell’ultimo anno e mezzo anche a seguito di alcuni incontri, come un seminario che avevamo organizzato in Tunisia e in cui abbiamo potuto prendere contatto con i membri della organizzazione della Libyan Platform Coalition. Ci sono dei giuristi che si occupano di diritti umani in condizioni pesantissime e difficili, quindi tramite l’unione delle forze siamo riusciti a seguire la vicenda drammatica di queste due persone che dopo vari tentativi cercavano di sbarcare sulle coste europee. In mancanza di questi rapporti non sarebbe stato possibile arrivare proprio alla denuncia al Comitato al Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani assieme al Cairo Institute».

La vicenda è piuttosto nota, ma vale la pena di ripercorrerla, a partire proprio dal 18 ottobre 2019, quando un’imbarcazione con 50 persone migranti si trovava nei pressi di Lampedusa, tecnicamente nella zona di ricerca e soccorso (Sar) maltese. Che cosa accadde?

«Le autorità maltesi e italiane furono immediatamente informate del problema e vennero avvertite più volte, in questo caso dall’organizzazione Alarm Phone, che per prima osservò e diede origine a tutta la vicenda. Nonostante la situazione di pericolo e il fatto che ne fossero a conoscenza, Malta e Italia non attivarono alcuna operazione di ricerca e di salvataggio e attesero l’arrivo della guardia costiera libica, cosa che poi avviene. L’operazione venne gestita dalla motovedetta Fezzan, fornita dall’accordo tra Italia e Libia del 2017 e le persone vennero costrette a salire. Furono poi sottoposte a maltrattamenti e vennero riportate in Libia. Da qui è nata l’idea di tentare di portare la questione davanti a un organismo che ha una base universale come il Comitato delle Nazioni Unite, per portare almeno di fronte a questo istituto questa situazione, nei confronti della quale credo che non ci siano più parole».

Quella libica è una situazione paradossale, in cui abbiamo violazioni documentate ed è impossibile fingere di non sapere. È vero anche dal punto di vista giuridico?

«È vero innanzitutto dal punto di vista storico: la situazione dei lager in Libia è conosciuta, documentata, ci sono reportage, testimonianze dirette e indirette, ma per di più si è verificata una cosa che nella storia non si è praticamente mai verificata. Anche in passato ci sono stati episodi gravissimi, penso ovviamente ai lager nazisti, ma lì le sentenze erano intervenute molto dopo. La cosa strana di questa situazione invece è che noi abbiamo già delle sentenze. In Italia la Corte d’assise di Milano, ma poi anche altre istituzioni, hanno sanzionato giuridicamente quelle situazioni terribili, hanno sanzionato con pene altissime, anche con l’ergastolo, la condotta di persone che gestivano o gestiscono questi centri. Quindi c’è già addirittura una formalizzazione a livello giuridico, che è una anomalia da un punto di vista storico. Abbiamo tutte le prove possibili e immaginabili e di fronte a questo c’è invece una situazione non solo di inerzia, ma si va oltre, in un’area giuridica di responsabilità».

Che cosa significa?

«Abbiamo recepito la violazione di una serie di articoli della Convenzione che erano evidenti, responsabilità che riguarda sicuramente la Libia ma riguarda a nostro avviso sicuramente anche Malta e l’Italia, anche per questo ampio e continuo sostegno tecnico, economico, logistico e politico. Sostanzialmente siamo di fronte a una sorta di delega diretta alle autorità libiche per l’operazione di salvataggio, come è avvenuto poi nel caso che abbiamo portato davanti al Comitato. È simbolico anche da questo punto di vista».

Fino a che punto può arrivare questo ricorso? Quali risultati si possono ottenere?

«Il comitato non emette delle sentenze, non è un organo giuridico, però emette una comunicazione finale che ha un impatto politico molto forte per l’autorevolezza dell’organismo da cui proviene. Inoltre può poi disporre anche tutta una serie di raccomandazioni, che hanno un valore molto forte anche rispetto a cercare di ripristinare la situazione di diritto nei confronti delle persone che hanno avuto la negazione di uno dei diritti fondamentali, quello del diritto di asilo. Di conseguenza, può portare a forme di risarcimento, ma soprattutto ha lo scopo di tentare di mutare la rotta rispetto a questa situazione. Il Mar Mediterraneo è un enorme cimitero davanti agli occhi di tutti, ma credo che una delle cose più preoccupanti sia il fatto di toccare con mano che ci troviamo in un orizzonte molto oscuro. Tra tutte le conquiste, l’aver elaborato il sistema dei diritti umani è forse la più grande del Novecento, non a caso Norberto Bobbio, il più grande filosofo del diritto italiano poneva l’accento su questo. Attualmente siamo in una fase in cui non solo questo sistema viene posto in discussione, ma c’è il rischio che venga fatto a pezzi, con il rischio che le lancette dell’orologio dei diritti umani si spostino molto indietro nel tempo. Sarebbe un gravissimo danno per la civiltà giuridica europea e non solo internazionale».