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La stampa forse muore, ma può risorgere

Il quadro delle vendite dei giornali quotidiani e, in generale, dell’editoria scritta è avvilente. Se quattordici anni fa si acquistavano 6 milioni di copie al giorno di quotidiani, ora siamo precipitati a 1.250.000. Eppure, quel tetto era rimasto immutato per molti lustri del ’900, salvo l’impennata dei primi anni Ottanta del secolo scorso (oltre 7 ml) grazie alle testate sportive, ai cosiddetti “femminili” e al successo delle voci locali. E i periodici non vanno meglio. Ovviamente, la raccolta pubblicitaria segue il calo diffusionale, accentuata – però – dalla crisi economica che ha tra i suoi primi effetti proprio il taglio degli investimenti nell’advertisement.

Insomma, siamo davvero alla fine di un ciclo della comunicazione. Comincia, persino, a intravvedersi un tornante cruciale nei prossimi anni Trenta: nel 2032 cesserà, salvo novità, il ciclo delle frequenze del digitale terrestre e la televisione si sposerà definitivamente con il computer; la carta stampata passerà da mezzo di informazione di massa a strumento residuale per élite con capacità di spesa, aumentando notevolmente il costo (con il vertiginoso trend delle materie prime) e di conseguenza il prezzo.

Si rovescia progressivamente l’ordine degli addendi: l’edizione online diviene quella principale, mentre la versione stampata assume la veste di una rivista quotidiana fino a trasformarsi in qualcosa di simile a un infinito inserto nel fine settimana.

Tutto ciò è già in corso d’opera. Parliamo dei casi di scuola del New York Times e del Washington Post, dove la lingua aiuta a varcare ogni confine e permette di raggiungere cifre di abbonati (10 e 4 milioni, rispettivamente) difficilmente raggiungibili altrove. Non a caso il Guardian è sulla stessa scia e così appare la tendenza in Francia. Tuttavia, fonemi a parte, la strategia descritta sembra ormai acquisita pure dove la situazione è diversa, come in Germania. Si potrebbe dire che i giornali stanno sì morendo, ma la lettura non segue la stessa sorte e nella versione digitale il vecchio glorioso prototipo ha l’opportunità di risorgere.

Naturalmente, il cosiddetto modello di business muta enormemente e soprattutto le fonti di finanziamento vanno aggiornate, basandosi il passaggio sulla capacità di fidelizzare pubblici solo in parte coincidenti con coloro che hanno segnato la storia precedente.

È difficile, ma hic Rhodus, hic saltaNon si può eludere ciò che accade nel sistema crossmediale, nelle forme produttive e nel consumo. Altrimenti, il risveglio sarà tremendo. Serve, dunque, una vera e propria visione, costruita su obiettivi precisi e credibili. Per immaginare una transizione non dolorosa e senza inquietanti effetti collaterali è indispensabile un investimento straordinario.

Da un lato, va rilanciato un inedito e capillare percorso formativo. Siamo costantemente la maglia nera in Europa quanto a culture digitali (dati europei DESI, Digital Economy and Society Index). Inoltre, serve un investimento pubblico e privato di carattere straordinario. Nessuna ristrutturazione ha fortuna senza un “tesoretto” capace di mettere in moto la parabola espansiva e le start up. Queste ultime sono numerose e figlie di una poco valutata creatività, pur presente in generazioni giovani che rischiano di non avere i meritati riconoscimenti. C’erano più cose in comune tra l’analogico e un’idea di digitale pensata dal ceto politico come circoscritta alla televisione. Che stecca.

L’appello da lanciare con educata durezza va proprio in tale direzione. Si estrapolino dal Pnrr (il Piano nazionale di ripresa e resilienza) le risorse necessarie, in verità implicitamente previste nel capitolo sulla missione digitale, termine che compare – come una moda – 138 volte nel dossier, più di Cristo nel Vangelo di Matteo.

Qualcosa è avvenuto. Un’aspirina. Dopo lunghe vicissitudini e giuste polemiche sollevate dalla Federazione nazionale della stampa con l’organizzazione degli editori, il governo uscente (su impulso del sottosegretario con delega Giuseppe Moles) ha varato l’atteso Decreto del presidente del Consiglio, che attua la ripartizione del fondo aggiuntivo varato dalla legge di bilancio di fine dicembre del 2021. Parliamo di 90 milioni di euro per l’annata in corso. Ne sono previsti per il 2023 ulteriori 140: investimenti per la digitalizzazione, un pizzico di stabilizzazione dei precari e un po’ di assunzioni di giovani. Un raggio di luce nel buio.

Forse, lassù qualcuno ci ama.