Martin Luther King di fronte a Gaza
«Non posso starmene con le mani in mano ad Atlanta, senza curarmi di quel che succede a Birmingham. L’ingiustizia che si verifica in un luogo minaccia la giustizia ovunque…»
Il 16 aprile del 1963, il pastore battista Martin Luther King si trovava a Birmingham, in Alabama, per protestare contro la segregazione razziale che ancora vigeva nella città, nonostante le sentenze dei tribunali e le timide leggi che avrebbero dovuto vietarla.
Poche ore dopo essere entrato in città, King fu arrestato con la generica motivazione che la sua presenza avrebbe potuto causare disordini. La tesi fu avvalorata da alcuni pastori bianchi che in una lettera aperta accusarono il loro collega di essere un agitatore, andato a Birmingham per provocare inutili disordini in una città nella quale, secondo loro, vigeva una serena convivenza multirazziale. Con qualche citazione evangelica che difendeva il principio teologico del rispetto delle autorità e il valore dell’ordine pubblico, l’invito rivolto a King era a tornarsene al più presto ad Atlanta.
King fu molto amareggiato di questa lettera che veniva da colleghi che come lui, ogni domenica mattina, salivano sul pulpito di una chiesa per predicare l’evangelo della grazia, della libertà e della giustizia. Sdegnato, chiese una penna e della carta per rispondere ai suoi critici ma le autorità del carcere non gli diedero né l’una né l’altra. Prese allora della carta igienica e con la punta di una matita fortunosamente recuperata in cella, scrisse un testo fondamentale per la storia della nonviolenza: la lettera dal carcere di Birmingham.
«Non posso starmene con le mani in mano ad Atlanta, senza curarmi di quel che succede a Birmingham – scrisse –. L’ingiustizia che si verifica in un luogo minaccia la giustizia ovunque…
Voi deplorate le manifestazioni che hanno luogo a Birmingham. Ma mi duole dire che la vostra dichiarazione non esprime analoga preoccupazione per le situazioni che hanno provocato le manifestazioni… È deplorevole che a Birmingham abbiano luogo le manifestazioni, ma è ancor più deplorevole che in questa città la struttura di potere dei bianchi non abbia lasciato alla comunità nera nessun’altra scelta… Perché optare per l’azione diretta? Perché i sit-in, i cortei e così via? Non è forse meglio percorrere la via del negoziato? L’azione diretta nonviolenta cerca di creare una crisi così acuta, da suscitare una tensione così insopportabile, da costringere una comunità, che si è sempre rifiutata di trattare, ad affrontare la situazione. L’azione diretta nonviolenta cerca di accentuare gli aspetti drammatici del problema in modo tale che non si possa più ignorarlo… Sappiamo per dolorosa esperienza che l’oppressore non concede mai la libertà per decisione spontanea: sono gli oppressi che devono esigere di ottenerla… Da anni sento dire la parola “Aspettate!”, che risuona all’orecchio di ogni nero con stridente familiarità. Questo “Aspettate” significa quasi sempre “Mai”».
Questo, King nel 1963. Oggi, di fronte al dramma di Gaza, alle paure degli israeliani e della disperazione dei palestinesi non sappiamo che cosa avrebbe detto o fatto Martin Luther King. Ma se ha senso fare memoria della sua testimonianza e del suo sacrificio, possiamo provare a sostituire Birmingham con Gaza. Ed è impressionante come quelle parole pronunciate nel 1963 possano suonare attuali e appropriate in riferimento a quello che è accaduto nei mesi scorsi e sta accadendo in queste ore. Le donne e gli uomini della Global Sumud Flotilla che hanno cercato di avvicinarsi a Gaza per rompere l’isolamento imposto da Israele a milioni di civili palestinesi hanno dato vita a un’azione diretta nonviolenta che ricalca il modello di mobilitazione che fu di King e del movimento per i diritti civili.
E come accadeva allora, chi in questi mesi nulla ha fatto per fermare la deportazione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case e dalle loro terre, oggi invoca prudenza e misura e ammonisce che altre strade si potevano perseguire. O afferma che sono ancora prematuri i tempi per il riconoscimento dello stato palestinese. La storia esprimerà il suo giudizio politico sull’azione della Global Sumud Flotilla, ma già oggi dobbiamo riconoscere la sua moralità e il fatto che questa iniziativa ha saputo rompere la cappa silenzio di inoperosità e di rassegnazione sul destino dei palestinesi.
La rubrica «Essere chiesa insieme» a cura di Paolo Naso è andata in onda domenica 5 ottobre durante il «Culto evangelico», trasmissione (e rubrica del Giornale Radio) di Rai Radio1 a cura della Federazione delle chiese evangeliche
in Italia. Per il podcast e il riascolto online ci si può collegare al sito www.raiplayradio.it