Dubbi e timori, ma soprattutto una grande speranza
Il periodo di avvicinamento all’approvazione definitiva del Patto di integrazione valdese e metodista nei ricordi di chi c’era
Concludiamo oggi la serie di articoli dedicata ai 50 anni dal Patto di integrazione fra le chiese valdesi e metodiste.
Per riandare con la memoria agli anni dell’avvicinamento alla definitiva approvazione, abbiamo chiesto un ricordo personale, che può contenere anche una valutazione personale a tre persone che hanno vissuto quella stagione e che negli anni successivi hanno dato un contributo importante alla vita delle chiese evangeliche in Italia.
Giovanni Anziani
Vorrei cercare di mettere ordine tra i miei ricordi riguardo alle tappe del cammino compiuto dalle nostre chiese metodiste e valdesi per giungere alla approvazione del Patto d’integrazione. Un cammino molto lungo, che vedrà un punto di svolta quando in ambito valdese emerge fortemente il contributo di Giorgio Peyrot. Egli elabora alcuni punti per una nuova trattativa: l’unione non può avvenire per sottrazione, ma per somma tra i diversi patrimoni ecclesiologici; tale somma pone la chiesa locale al centro per la costruzione di un unico corpo. Nasce quindi il progetto del Patto, non tra enti ecclesiastici, ma tra le chiese. Un primo segnale di unità avviene nel 1969 quando a Roma è convocata la sessione congiunta tra Sinodo valdese e Conferenza metodista. I lavori di tale assemblea erano guidati da una co-presidenza e le decisioni sono state approvate con diverse schede colorate, ma ciascuna assemblea accetta di considerare approvato un atto se l’altra assemblea lo ha approvato. Vi è alla base l’ipotesi di una sovranità limitata delle assemblee, e questo non sarà cosa di poco conto. Poi il Patto verrà attuato nel quadriennio 1975-1979.
Mirella Scorsonelli
Il percorso dell’approvazione del Patto di integrazione è stato lento, faticoso e accidentato. Lento in quanto sono stati necessari moltissimi incontri non solo tra i membri delle dirigenze, ma anche dei membri delle chiese locali; faticoso per riuscire a far comprendere le motivazioni riguardanti l’attuazione di tale progetto; accidentato per gli scontri tra visioni diverse di unione tra metodisti e valdesi. Ricordo che alcune Conferenze annuali metodiste hanno registrato violenti battibecchi, il timore di un assorbimento del metodismo nel valdismo ha aleggiato per molto tempo in particolare durante la ricerca del nome da dare al nuovo soggetto. I giovani che già sperimentavano la realtà di gruppi giovanili non più denominazionali erano più favorevoli ad una unione nel rispetto sia della realtà metodista sia di quella valdese, mentre il timore dell’assorbimento era maggiormente radicato tra le persone più mature. Mi corre l’obbligo di evidenziare che la Chiesa metodista di Napoli – che, a causa della demolizione del tempio, già da alcuni anni viveva la realtà dell’unione con la Chiesa cristiana del Vomero di matrice valdese – fu subito favorevole al progetto.
In questi cinquant’anni anni non sono mancati momenti nei quali è stato necessario richiamare l’attenzione sul rispetto della minoranza metodista; ho avvertito nell’ultima Consultazione l’auspicio del superamento del Patto di Integrazione per una realtà più univoca e questo mi preoccupa.
Gian Paolo Ricco
Il percorso per giungere al Patto di integrazione, iniziato nel lontano 1942, non è stato una marcia trionfale, ma un cammino lungo e difficile. Infatti, accanto alle aspettative in positivo di molti, si registrava anche un diffuso atteggiamento di diffidenza e di paura di perdere la propria identità metodista. Per superare i contrasti interni e poter giungere a una decisione condivisa, furono necessari frequenti e serrati dibattiti, grazie ai quali finì per prevalere un orientamento nettamente maggioritario favorevole all’integrazione. A questo proposito, va riconosciuto alla dirigenza metodista il merito di aver saputo esercitare la pratica paziente della mediazione tra posizioni divergenti, evitando contrapposizioni laceranti.
Quando poi si arrivò al primo Sinodo vissuto in comune, esso rimane nella mia memoria con un tratto indelebile, come uno dei momenti più significativi del mio impegno all’interno del mondo evangelico. Vedevo congiunte in modo operativo le mie due appartenenze: quella valdese, trasmessa da mia madre, e quella della mia già lunga militanza in ambito metodista. Finalmente noi metodisti e i fratelli valdesi sedevamo negli stessi scranni, partecipavamo alla medesima assemblea, discutevamo e prendevamo le decisioni senza la differenziazione delle schede di votazione di colore diverso…
Le tappe verso l’ approvazione
1969: dal 14 al 16 maggio si tiene a Roma una sessione congiunta del Sinodo valdese e della Conferenza metodista, assemblee costituitesi entrambe in maniera indipendente. Il risultato è «il riconoscimento della piena appartenenza alla propria confessione di origine a quel credente che, per diversi motivi, si trovasse a frequentare stabilmente una comunità della confessione sorella».
1974: Dopo alcuni Sinodi e Conferenze che, ognuno nella sua autonomia, avevano lavorato al Progetto di integrazione, la seduta congiunta del Sinodo valdese e della Conferenza metodista, a Torre Pellice, approva il Progetto di integrazione globale tra le Chiese valdesi e metodiste.
1975: È l’anno dell’approvazione da parte di ognuno dei soggetti coinvolti: la prima assise a pronunciarsi è il Sinodo valdese nella sua sessione rioplatense (in febbraio); in agosto si esprimono anche il Sinodo nella propria sessione europea e la Conferenza metodista.
1979: Giunge l’approvazione definitiva, ma è un’approvazione che ormai non deriva da due organismi separati e paralleli. SI compie il processo del Patto d’integrazione.
(le notizie qui riportate sono desunte dal contributo di V. Vozza, «La Chiesa evangelica metodista d’Italia. Un percorso di unioni e integrazione (1946-1975»), compreso nel volume di cui si tratta in questa pagina).