Eliminare delle festività per incrementare il Pil a tutti i costi?

Fa discutere la proposta del premier francese di cancellare il Lunedì di Pasqua e la ricorrenza della fine della 2° guerra mondiale dal calendario delle feste

 

Il giorno dopo il 14 luglio, il primo ministro francese François Bayrou, fondatore del partito democratico Mouvement démocrate – MoDem), in sede di incontro di presentazione del budget per il prossimo anno ha lanciato la proposta di sopprimere due giorni festivi. Le due date suggerite, non confermate, perché era chiaro sin dall’annuncio che si sarebbe aperta una importante discussione, sono il lunedì di Pasquetta e l’8 maggio.

 

Il motivo per cui si propone di eliminare due giorni dalla lista dei festivi è di carattere prettamente economico: due giorni di congés payés costano alla Francia circa 4,3 miliardi di euro. Trasformarli nuovamente in giorni lavorativi, afferma il primo ministro, sarebbe un importante aiuto per l’economia nazionale: con il deficit pubblico fissato al 4,6% del Pil, e la necessità di ridurlo entro il 2026 per rispettare le normative europee e prevenire ulteriori pressioni sui mercati internazionali, la Francia ha bisogno di risorse consistenti per ridurre il debito. Le misure sono altre, ovviamente, non solo questa: a essere rilevante è il valore simbolico che hanno tanto i giorni festivi in sé quanto “quei due” giorni. Rinunciare a due degli undici (dodici per il Grand Est, che include anche l’Ascensione) giorni di festività pagate sarebbe, inoltre, un importante segnale dato dalla Francia all’Europa quanto alla serietà con la quale si affronta, anche sul terreno dell’identità, dei valori e della memoria, il problema della gestione del debito pubblico. Da qui il dibattito, a tratti infiammato, che ha seguito la proposta.

 

Il lunedì dell’Angelo, festa civile in Italia dal 1947 e in Francia dalla decisione di Napoleone, nel 1801, di ridurre i giorni di celebrazione attorno alla Pasqua («per tenere sotto controllo il cristianesimo», ricordano alcune tra le principali testate giornalistiche, citando il quotidiano La Croix) non risulta, secondo alcune voci autorevoli del cristianesimo occidentale d’Oltralpe, tra le date intoccabili: peggio sarebbe se si fosse parlato del triduo pasquale, del 15 Agosto o dell’Ascensione. Eppure, “l’ottavo di Pasqua” ha una radice profondissima, che scava fino alle antiche tradizioni ebraiche di aggiungere un giorno alle celebrazioni più importanti. Come se a un certo punto la domanda dei discepoli, «rimaniamo ancora un momento qui», dopo la trasfigurazione, avesse in qualche modo ottenuto una minima risonanza.

 

L’8 Maggio è il giorno in cui si ricorda la vittoria degli Alleati sul nazismo, e quindi la fine della Seconda Guerra mondiale. Impensabile anche solo evocare, in Francia, la soppressione dell’11 Novembre, data di memoria della fine del primo conflitto mondiale. A una prima lettura delle reazioni politiche e sindacali, la difficoltà maggiore si riscontrerebbe qui, più che su Pasquetta: l’8 Maggio, diventato festa nazionale nel 1953, fu poi soppresso dal generale De Gaulle nel 1959 e ripristinato, nel 1981, da François Mitterand. L’ipotesi fa indignare tanto i sindacati nazionali, cristiani e non, quanto l’intero arco di appartenenze politiche, dal Parti Communiste, che ha immediatamente lanciato una petizione, al presidente del Rassemblement National, Jordan Bardella, che denuncia in questa proposta un attacco all’identità e alla storia del Paese.

 

L’argomentazione da parte del governo è che la decisione sarebbe segno di rigore e serietà, una scelta di sobrietà dal valore simbolico – più ancora che economico, a fronte dell’ammontare del debito pubblico della Francia – fondamentale. L’importante, in altre parole, è “dare un segnale”. Eppure, argomentando, Bayrou dice che il lunedì di Pasquetta «non ha alcun valore religioso», e che l’8 maggio è uno dei giorni festivi a causa dei quali ogni anno il calendario di maggio è «una vera e propria groviera, in cui si salta da un ponte a un viadotto di vacanze». Due pesi e due misure, si potrebbe commentare: la festività religiosa che religiosa non è, da un lato, e il giorno di memoria della vittoria contro il nazismo e di fine del conflitto mondiale, dall’altro, che semplicemente “ingombra” l’agenda del mese di maggio, senza commenti sul significato della data in questione.

 

Anche se la Francia non è il primo Paese a esaminare la pista di eliminare date festive dal calendario per racimolare risorse economiche, è vero che la proposta, che punta a due date simbolicamente molto importanti per il “sentire” della popolazione, è effettivamente una novità. Ma perché parlare di tutto questo, oggi, in un editoriale protestante in Italia?

 

Perché la riflessione è anche un argomento da teologia pubblica: a fronte della comunicazione da parte del governo Bayrou ci si può interrogare, da osservatori, sul valore simbolico che la proposta può avere, non solo per i cittadini francesi ma più in generale per la “cultura europea” e le sue matrici cristiane, di dialogo, democratiche. Ci si può interrogare sulle dinamiche che portano i governi, sempre più in ostaggio di debito pubblico e ragion di Stato, a cercare parole e narrazioni credibili per affrontare la totale dipendenza da un sistema che erge lo “sviluppo” a culto e ritiene un determinato stile di vita “valido” solo e soltanto nella misura in cui è possibile continuare a farlo “crescere” e mantenere la tendenza positiva. Ci si può chiedere che cosa, sugli altari del Debito Pubblico, siano pronti a sacrificare: quali valori, quali princìpi fino a poco tempo fa non negoziabili, quali parti della vita di comunità e singoli individui.