Evviva, Cecilia è libera! 

Sono ancora tanti, purtroppo, i prigionieri incarcerati e privati delle loro libertà dal regime iraniano 

 

«Cecilia Sala è tornata in libertà dopo essere stata ingiustamente arrestata e tenuta in isolamento per tre settimane nel carcere di Evin a Teheran. Una splendida notizia che però ci fa ricordare anche tutte le persone ingiustamente detenute a Evin e in altri centri di detenzione in Iran», denunciano le associazioni Amnesty International Italia e Articolo 21 liberi di… citando un caso per tutti e esemplare, quello di Ahmadreza Djalali, il medico e scienziato iraniano-svedese che il 26 aprile del 2016 si trovava in Iran per un viaggio di lavoro quando venne arrestato con l’accusa di spionaggio. Ahmadreza, molto noto in Italia per averci vissuto a lungo, è stato infatti ricercatore presso il Centro Interdipartimentale di Ricerca e la Formazione in Medicina dei Disastri, Assistenza Umanitaria e Salute Globale dell’Università del Piemonte Orientale dal 2012 al 2015, continuando a collaborare con il Centro anche durante la sua permanenza in Svezia, paese in cui risedeva con la famiglia, fino al momento del suo arresto. 

 

In questi sei anni l’Università del Piemonte Orientale, insieme alle istituzioni e ai cittadini novaresi hanno intrapreso molte azioni per mantenere alta l’attenzione mediatica, per chiedere la liberazione di Ahmad e ottenere il supporto dei governi europei e delle Nazioni Unite per questa difficile battaglia per la sua liberazione. Nel 2019 il consiglio comunale di Novara ha conferito ad Ahmadreza la cittadinanza onoraria, a seguito della proposta presentata dall’Ordine dei medici provinciale. 

L’Università del Piemonte Orientale nel dicembre del 2020 dedicò al medico una maratona scientifica e accademica di 24 ore e in cui 160 scienziati, studiosi e accademici da tutto il mondo, si susseguirono in un’ininterrotta serie di interventi, per dimostrare solidarietà ad Ahmad e per sottolineare che la scienza e la ricerca devono rimanere libere da ogni condizionamento politico.

 

«Ahmadreza Djalali, in Iran, ha subito l’isolamento prolungato, la tortura e altri maltrattamenti – ricorda Amnesty –. Dopo un processo iniquo è poi stato condannato a morte nonostante abbia sempre negato le accuse nei suoi confronti. La scorsa estate, era stato escluso da uno scambio di prigionieri avvenuto tra la Svezia e l’Iran, e per protesta iniziò uno sciopero della fame. A oggi è ancora detenuto e rischia di essere messo a morte da un momento all’altro. La sua famiglia non ha mai smesso di lottare per la sua scarcerazione».

 

L’isolamento ad Evin, ricorda ancora Articolo 21, «l’ha sperimentato anche la Premio Nobel per la Pace 2023 Narges Mohammadi, divenuta ormai un simbolo della lotta per i diritti umani in Iran. Sono più di 14 anni che Narges è regolarmente sottoposta ad arresti arbitrari e maltrattamenti per il suo impegno contro la pena di morte e per i diritti delle donne. Oggi è fuori dal carcere per un permesso medico. Le sue condizioni, infatti, si sono aggravate in carcere».

 

Dall’inferno di Evin – prosegue Articolo 21 – è passata anche Zeynab Jalalian, un’attivista curda iraniana impegnata per i diritti di donne e ragazze curde oppresse. In carcere da marzo del 2008, è stata accusata di “inimicizia contro Dio” e condannata a morte per la sua attività politica nel Partito per la vita libera del Kurdistan. Oggi non è più a Evin, ma continua a scontare la sua pena nel carcere di Yazd, a 1400 km dalla sua famiglia. Una pena ingiusta che deve finire il prima possibile».

 

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