Di segni e di visioni
La nuova rubrica di Riforma fra arte e spiritualità
Cercate il bene della vostra città, diceva Geremia. La città: un intreccio di convivenza e solitudine, uno spazio che si espande e ci assorbe, ci ospita e ci respinge.
Nelle pennellate sicure e cariche di tensione di Boccioni, e in quelle più lente e riflessive di Sironi, questa duplicità emerge e racconta, d’arte, di vita e di storia.
Umberto Boccioni muore nel 1916, a 33 anni, lasciando interrotta la ricerca sul dinamismo e sulla velocità che fu tanto cara al Futurismo sempre in bilico tra entusiasmo e frenesia.
Mario Sironi, invece, sopravvive alle guerre e a molti altri fragorosi eventi della sua epoca: futurista per un tempo breve, tornerà a un rigore monumentale, raccogliendosi nella riflessione del Ritorno all’Ordine e avvicinandosi al movimento Novecento di Margherita Sarfatti, famosa giornalista e critica d’arte.
Le loro visioni si manifestano in opere come La città che sale di Boccioni (1910-1911) e nei Paesaggi Urbani dipinti da Sironi tra il 1920 e il 1925.
Sono città, e soprattutto visioni, diverse.
Quella di Boccioni è tutta vortici e costruzione: cavalli imbizzarriti, operai in lotta con il caos per plasmare il futuro – lo spazio che non si ferma, ma anzi si muove, si sgretola e si ricompone, con un’energia che promette infinito.
Nella città di Sironi, invece, il protagonista è il silenzio.
Gli edifici squadrati dominano su strade vuote, e le figure, quando appaiono, sono come malate di staticità – perfino quando passano in bicicletta – esseri alati che osservano il tempo senza parteciparvi.
Non c’è fuga, non c’è movimento: solo un’ostinazione a sopravvivere, spesso priva di gioia, ma mai vuota di dignità.
Le due città si specchiano l’una nell’altra: vita e riflessione, velocità e malinconia.
In entrambe risuona il pensiero di questi due grandissimi artisti, ed il loro modo, diverso ma ugualmente determinato, di immaginare il bene per la città, e per chi ci vive dentro.