Disarmiamo il linguaggio, almeno quello

Dopo le dichiarazioni di papa Francesco e la risposta di Edith Bruck, uscita oggi sulle prime pagine dei giornali, abbiamo chiesto a Paolo Naso se ci sono parole giuste o da evitare in merito alla questione mediorientale

 

Le parole possono essere usate come armi e il conflitto israeliano palestinese si combatte anche con l’uso di certi termini che, al di là delle intenzioni di chi li pronuncia, hanno un valore ideologico e rimandano a uno schieramento di parte.

 

Paolo Naso è membro del gruppo di lavoro della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) che porta il nome: «Fermiamo l’odio, aiutiamo i costruttori di pace».

In seguito alle affermazioni di papa Francesco che ha recentemente detto: «Indagare se a Gaza è in atto un genocidio. Stiamo diventando disumani» e la risposta della scrittrice Edith Bruck, «ora papa Francesco condanni anche l’antisemitismo: quelli di Francesco sono termini sbagliati. Così ridimensiona la portata storica della Shoah» (intervistata su la Repubblica ), abbiamo chiesto a Paolo Naso un breve commento sulla vicenda.

 

«Le parole del papa non sono perentorie  e definitive ed  hanno il merito  di incoraggiare una verifica sull’applicabilità della categoria del genocidio anche in riferimento a una situazione che si evolve a ritmi e in prospettive di imprevedibile gravità. Nel merito, il dibattito sull’uso del termine “genocidio” pare ideologico, quasi che l’utilizzo di una parola possa risolvere il problema dell’interpretazione di fatti enormi, sconvolgenti e disumani. E non è evitando la parola “genocidio” che Israele può sottrarsi alle sue gravissime responsabilità per la situazione nei Territori palestinesi e la portata e gli effetti dell’escalation militare seguita alla strage e ai rapimenti del 7 ottobre. Né può sottrarsi al giudizio internazionale sulle “stragi di massa”, “gli attacchi indiscriminati contro i civili e le infrastrutture umanitarie”, “le punizioni collettive”, l’abbattimento di case.

 

Detto questo, dobbiamo capire quale sia la priorità: per chi voglia porsi nella prospettiva di favorire il dialogo e piantare “semi di pace”,  per quanto rari e spesso infruttuosi, evitare certi termini è la premessa di metodo per cercare l’ascolto e l’attenzione dell’altro. Il progetto “Fermiamo l’odio, aiutiamo i costruttori” di pace, lanciato dalla Fcei in collaborazione con il mensile e centro Studi Confronti, si pone in questa prospettiva e cerca di usare le parole giuste al momento giusto. Il che non significa rinunciare e esprimere giudizi, anche netti e severi, ma in modo tale che non possano essere accusati di derivare da pre-giudizi ideologici e di aprioristico schieramento. Questo sforzo di etica del linguaggio, non riguarda il termine “genocidio” soltanto: non è corretto, ad esempio, parlare «di “terrorismo islamico” ed è sempre preferibile usare l’espressione “islamista”, o “di matrice islamista”, a evidenziare che si tratta di un’accezione ideologica e distorta dell’islam.

 

E a maggior ragione, va evitata l’espressione “terrorismo palestinese” ma sostituita con “di fazioni palestinesi”. Se usiamo poi il termine “fondamentalismo” – prosegue Naso – è preferibile usarlo al plurale, a sottolineare che siamo consapevoli che correnti fondamentaliste, tutte pericolose alo stesso modo, attraversano il mondo, islamico, ebraico e cristiano, così come altre comunità di fede. La parola Jiahd – sforzo – non ha solo una valenza violenta e terroristica ma nell’esegesi ortodossa del Corano  esprimere  l’impegno  del musulmano a rendere al meglio la sua testimonianza di fede. Il suo sforzo interiore per il raggiungimento di un risultato difficile da raggiungere».

 

Alle orecchie dei palestinesi, ad esempio, «il sionismo – prosegue Naso – è l’ideologia che li ha privati della terra. Nei limiti del possibile, dobbiamo spiegare che il sionismo è stato un movimento nazionale non diverso da altri, ad iniziare da quello palestinese, la cui identità si  definita e precisata proprio in contrapposizione a quella ebraico-israeliana. Che ci sono diversi sionismi. In ogni caso, dobbiamo contestare che i sionisti e il sionismo siano i responsabili delle violenze e della guerra: esiste un sionismo democratico -ebbene sì, basta studiare e leggere Y. Leibowitz, Grossman, Oz e cento altri autori –  che crede nell’ipotesi della convivenza e nella formula “due popoli due stati”».

E ancora, rileva Naso, «troppo spesso, soprattutto da parte araba, si dice “gli ebrei” invece che “gli israeliani”. Un pericolosissimo scivolamento linguistico verso la “guerra di religione”. Colonialismo è termine spesso usato per indicare l’occupazione israeliana dei territori di Cisgiordania e, un tempo, di Gaza. Va evitato perché la natura dell’occupazione militare – violenta, brutale e illegittima – è diversa da quella coloniale che ha al centro lo sfruttamento della terra e delle persone. Il termine occupazione, magari aggettivato (intollerabile, illegale etc…) ha già una sua gravità e pesantezza».

 

Ragioni analoghe suggeriscono di evitare la parola «razzismo, sia perché risibile nel contesto semitico che perché propria di altri contesti. Apartheid, poi, è parola boera che ha definito il sistema di separazione razziale in Sudafrica. Il contesto mediorientale è altro e non ha alcun senso applicare un termine incoerente. Il concetto si può esprimere denunciando, ad esempio, il muro di separazione che ha frammentato il territorio palestinese, diviso le famiglie e compromesso ogni accordo di pace».