Israele e Palestina, schemi da ripensare

L’ultimo libro della storica Anna Foa pone interrogativi utili alla molteplicità dei punti di vista

 

«Quando e se le armi smetteranno infine di sparare, dovremo rivedere molti dei nostri schemi interpretativi, ripensare il nostro rapporto con la nostra storia. Rileggere i percorsi di una memoria che ci ha accompagnato per ottant’anni ma che non è bastata a mettere in salvo né i civili ebrei né i civili palestinesi nei mesi di guerra»: così la “Premessa” di Anna Foa nel suo ultimo libro schietto e coraggioso: Il suicidio di Israele*. Come in altri scritti, l’autrice recupera la diffusa presenza ebraica nel mondo, “vie” che non coincidono con la fondazione di uno Stato. Voler concentrare in un solo luogo e in un solo popolo il mondo ebraico fu opera del sionismo con un progetto politico che tuttavia «non fa parte e non ha mai fatto parte della costruzione teorica e filosofica del mondo ebraico» fino a quella data.

 

Nato in opposizione alla diaspora, critica l’“assimilazione” degli ebrei là dove risiedono. Anzi, la creazione di un territorio solo per ebrei non fu all’inizio (metà del XIX secolo) solo la Palestina. Si pensò all’Uruguay e all’Uganda. La battaglia fra sionisti, ebrei contrari e palestinesi si giocò, in particolare, sotto il protettorato britannico che mantenne una politica ambigua in Medio Oriente, promettendo l’indipendenza agli arabi e nello stesso tempo un foyer ai sionisti.

 

L’autrice parla di sionismi. Infatti, diversi auspicavano la convivenza tra arabi ed ebrei, altri invece usavano la forza per farsi spazio, come oggi, cacciando i palestinesi. Alcune date segnano “angoli” nella storia di quella terra contesa. Nel 1947 l’Onu approva la risoluzione 181 che ne prevede la ripartizione con il 56% per gli ebrei, il resto ai palestinesi. L’anno dopo Ben Gurion, leader del movimento sionista, proclama lo stato di Israele. Egitto, Iraq, Giordania e Siria attaccano Israele, che vince la guerra aumentando il suo territorio. I profughi palestinesi furono oltre 700.000, una Nabka (catastrofe).

 

Le rispettive memorie sancirono l’inconciliabilità. Israele rafforzò la propria con il processo Eichmann (1961), il nazista tecnocrate che aveva fatto funzionare la macchina di sterminio degli ebrei in Germania (da cui Hannah Arendt elaborò il concetto di “banalità del male”, che si compie non chiedendosi il senso del proprio fare, nell’anonimità del gesto burocratico). Il processo, con oltre cento testimoni, legittimò, «il paradigma vittimario e la memoria della Shoa diventa parte integrante e fondante dello Stato», uno stato che non ricorderà altre forme di resistenza come la rivolta del ghetto di Varsavia. Con questo processo «Israele si poneva l’erede di sei milioni di ebrei assassinati», assumendo il ruolo della loro memoria che unificava le varie ondate migratorie susseguitesi prima con i sopravvissuti che sceglievano Israele non sapendo ove andare e non perché sionisti, poi dai paesi dell’ex Unione Sovietica, oltre un milione che fece del russo la terza lingua di Israele, dopo l’ebraico e l’arabo.

 

Che cosa significa, a questo punto del cammino il “suicidio di Israele”? Come si può considerare Israele una democrazia senza considerare che da oltre mezzo secolo porta avanti l’occupazione su un altro popolo? «Non è ormai giunto il momento, si chiede l’autrice, di guardare a costruire una società civile democratica, di cittadini liberi e uguali nella loro diversità?». Oggi, ricordiamolo, Israele è uno stato “ebraico” (come da legge del 2018 di Netanyahu) in cui «l’autodeterminazione nazionale appartiene solo allo stato ebraico». L’originaria laicità del sionismo è cancellata, mentre i ministri oltranzisti della destra razzista della “Grande Israele”, Ben Gvir e Bezalel Smotrich, armano i coloni che indisturbati conquistano villaggi, orti, pascoli della Cisgiordania: «per Israele un vero e proprio suicidio. Un suicidio guidato dal suo governo, contro cui – è vero – molti israeliani lottano con tutte le loro forze, senza tuttavia finora riuscire a fermarlo. Senza nessun aiuto, o quasi, da parte degli ebrei della diaspora».

 

Conclusione amara che interroga tutti. Come l’allarme sull’antisemitismo che Anna Foa non definisce “estremo”, con alcuni antisemiti ci si può spiegare. Per parlarne però, afferma, è necessario aprire gli occhi su ciò che succede a Gaza, una strage anche di vecchi e bambini che alimenta solo esplosioni di odio. E «non possiamo dare per scontato che l’odio lasciato da tutti questi traumi cesserà un giorno. Ma non ci sono altre strade che questa». È una fede che vogliamo fermamente condividere.

 

* A. Foa, Il suicidio di Israele. Bari, Laterza, 2024, pp. 104, euro 15,00.