Giorgio Rochat. Noi e la Prima Guerra Mondiale
L’intervista allo storico, mancato il 19 ottobre, sulla retorica della Grande Guerra
Il 19 ottobre è mancato a Torre Pellice lo storico Giorgio Rochat. Lo ricordiamo oggi con un articolo e con la pubblicazione di alcune interviste che la nostra redazione aveva con lui realizzato negli ultimi anni. Quella che segue è l’intervista di Samuele Revel realizzata in occasione di uno speciale del nostro giornale dedicato ai 100 anni dalla fine del Primo conflitto mondiale (1918).
4 novembre 1918. Cento anni fa terminava la Prima Guerra mondiale. Nei giorni immediatamente precedenti si era combattuta la decisiva battaglia di Vittorio Veneto (o «terza battaglia del Piave»). Il giorno 3 i primi soldati italiani entravano in Trento, uno dei simboli del conflitto assieme a Trieste, al Piave, a Caporetto, all’altopiano di Asiago, al Grappa… Una battaglia che costò ancora oltre 35.000 perdite italiane e 90.000 austroungariche e la cattura da parte degli italiani di quasi mezzo milione di «nemici». I numeri totali, difficili da decifrare come sempre in eventi di tale portata, conteggiano circa 17 milioni di morti (fra militari e civili) e quasi altrettanti di feriti fra le truppe.
Una guerra che non si può spiegare ma solo raccontare. E con Giorgio Rochat* abbiamo provato a raccontare che cosa sia stata per l’Italia e per gli italiani.
«La Prima Guerra mondiale è stata la prima e anche l’ultima di un paese unito. La classe dirigente di allora era preparata e la condusse con coscienza e consapevolezza: insomma, semplificando, l’ha fatta “bene”. Ma non mi si fraintenda, la guerra è sempre sbagliata, questo voglio sia chiaro. Nella condotta del primo conflitto mondiale però l’Italia era sullo stesso piano, tecnicamente, di francesi, inglesi e austriaci; forse un passo indietro soltanto ai tedeschi, ma questo gap verrà colmato prima della fine delle ostilità. Armamenti, preparazione delle truppe e unità di intenti, invece, nella Seconda saranno sempre inadeguati».
– Ma è stata una guerra dell’Italia o degli italiani?
«In un primo tempo la maggior parte della popolazione la sentiva sua. Naturalmente a “trascinare” erano le classi benestanti. A riprova di questo fatto sono le rivolte. Nell’Esercito italiano, benché le condizioni delle trincee fossero tutt’altro che felici, non ci sono state grandi rivolte verso gli ufficiali. E le azioni si sono svolte sempre con grandi sacrifici di uomini: per noi è difficile da capire, ma durante le ostilità si creano delle situazioni che in tempo di pace non possono esistere. Nei canti degli Alpini, uno specchio della vita militare di trincea, a esempio si legge tristezza, dolore, ma mai un sentimento di rivolta e di ribellione: c’è l’obbedienza che è sopra tutto. Il primo conflitto mondiale ha coinvolto tutti, parlando di maschi in età arruolabile, mentre per il secondo (e nella mia famiglia questo esempio è chiaro) solo una minoranza ha impugnato le armi».
– E nelle valli valdesi, nella stessa Chiesa valdese, che cosa è successo? Come è stata «accettata» la guerra?
«Con senso del dovere, del sacrificio e dell’ubbidienza. Questo hanno predicato i pastori dal pulpito; e, quando chiamati, si sono mescolati con i militari, nelle trincee, negli assalti, svolgendo il loro ruolo di cappellania che consisteva soprattutto nello spronare e nel rincuorare gli uomini. Nelle valli valdesi, come nel resto d’Italia, i casi di diserzione sono stati minimi; poteva infatti un ragazzo nascondersi, darsi alla macchia, mentre i suoi coscritti combattevano e venivano feriti e uccisi sull’Ortigara? Anzi ci fu un fenomeno inverso: dall’estero i ragazzi in età di leva tornavano in Italia. Dagli Stati Uniti a esempio l’ambasciata pagava loro un biglietto per il ritorno (e quindi abbiamo dati precisi su questo fenomeno), ma molti tornarono dalla Svizzera o da altri Stati senza essere registrati».
– Il 4 novembre le ostilità, per l’Italia, cessano. Che cosa è successo dopo?
«In ogni Comune è stata celebrata la guerra. Con lapidi, parchi della Rimembranza, viali e monumenti. I valdesi hanno invece costruito il Convitto degli orfani, l’attuale Centro culturale valdese di Torre Pellice: una risposta diversa al culto dei morti. Ma sono passati pochi anni e con l’avvento del fascismo si è avuto un “iper-patriottismo” che è diventato insopportabile per molti reduci. “Basta guerra” erano le parole di quegli anni di chi vedeva il fascismo esaltare e fare propria una tragedia come quella appena conclusa: ai vari Nenni, Lussu e Parri sembrava che il fascismo rubasse loro la guerra che avevano combattuto».
– Che cosa è rimasto di questa guerra?
«È rimasto il ricordo condiviso e “unitario”: a riprova di questo ancora oggi ci sono parole che riportano a quel periodo, sono diventati luoghi comuni ed evocano qualcosa che fa parte della storia d’Italia. Di questo conflitto non ci si è vergognati. L’esercito non si è macchiato di azioni come quelle svolte in Africa o in Jugoslavia contro i partigiani. Ed è rimasto il ricordo di una grande tragedia».
Il 4 novembre terminava la guerra per l’Italia, mentre sul fronte francese si combatteva ancora fino all’11 novembre. A Verdun, in quel giorno, quando nella «battaglia simbolo» persero la vita oltre 400.000 persone, venne accesso un grande falò attorno a cui, finalmente in pace (dopo le prove generali delle tregue natalizie durante il conflitto), si radunarono superstiti francesi, tedeschi e inglesi.