Integrare il rigore accademico con l’attenzione alla cura

A colloquio con la pastora Francesca Nuzzolese, nuova docente della cattedra di Teologia pratica presso la Facoltà valdese di teologia a Roma

Durante la celebrazione del culto solenne che ha aperto i lavori del Sinodo 2024 è stata presentata la pastora Francesca Nuzzolese, da ottobre ufficialmente docente della cattedra di Teologia pratica presso la Facoltà valdese di teologia a Roma. A margine dei lavori sinodali, le chiediamo di raccontarci alcune note biografiche e il suo percorso formativo.

«Sono originaria di Altamura (Ba), e sono cresciuta nella locale chiesa battista, in un ambiente accogliente dove l’identità protestante era al centro dell’educazione familiare. Vivevo l’essere parte di una minoranza come qualcosa di cui essere orgogliosa, e fin da ragazzina ho sentito forte il desiderio di aprirmi al mondo, impegnandomi in un lavoro di servizio cristiano, che a quel tempo, definivo e concepivo di spirito e carattere “missionario”. Sentendo una chiara vocazione in quella direzione, sono andata a studiare teologia presso il Seminario battista di Rüschlikon (Svizzera).

Successivamente, grazie anche all’accompagnamento del pastore battista Saverio Guarna, con il quale feci un’esperienza missionaria in Albania, compresi che avevo il desiderio di lavorare nell’intersezione fra la spiritualità e l’espressione della fede in azione che significa il benessere umano in senso olistico. Più si chiariva la mia vocazione più mi rendevo conto che avevo bisogno di acquisire maggiori strumenti.

Così ho proseguito i miei studi in Australia, al Melbourne College of Divinity, concentrandomi sull’approfondimento delle scienze umane (sociologia e psicologia in particolare), così che queste discipline potessero aiutarmi, insieme alla teologia e alla spiritualità, nella professione dell’aiuto a cui mi sentivo chiamata. Desiderando approfondire ulteriormente questo percorso di formazione con degli strumenti accademici rigorosi (e maturando una certa affinità con la professione accademica), mi sono recata negli Stati Uniti, dove la teologia pratica era insegnata e praticata con strumenti interdisciplinari, e con una profonda integrità di metodo e di contenuti.

Accompagnata da docenti che hanno delineato e costruito il campo della pastorale negli Stati Uniti (come John Patton, Rod Hunter, and Emanuel Lartey), ho conseguito un Dottorato di ricerca, e proposto, attraverso la mia dissertazione, un modello di cura pastorale, che definisco psico-spirituale, e che si preoccupa di mantenere in conversazione equa (ed equilibrata) le discipline della teologia del processo, la psicologia intersoggettiva, e la teoria politica. Questo modello mi guida non solo nel lavoro pratico, di pastora e di psicoterapeuta, ma anche nell’impostazione della mia pedagogia didattica».

Per quasi trent’anni è stata all’estero. Cosa l’ha incoraggiata a ritornare in Italia?

«Per oltre 20 anni ho insegnato negli Stati Uniti, in contesti interdenominazionali e interreligiosi, e contribuito al lavoro di molte Onlus a livello internazionale. È stato un periodo ricchissimo, in cui ho insegnato e imparato tanto, e dove centrale è sempre stata la mia vocazione e la corrispondenza fra i miei doni, le mie conoscenze e i bisogni delle persone, comunità e situazioni umane che Dio mi poneva davanti. Dopo 30 anni di vita all’estero, ho maturato il desiderio di trovare un campo di lavoro più vicino alle mie origini, al contesto europeo e del Medio Oriente, per ascoltare un senso di chiamata alle problematiche di queste terre, con particolare attenzione al problema della migrazione, la vulnerabilità umana nei periodi di dislocazione e l’esperienza traumatica che ne consegue. In quel periodo di mia transizione verso l’Europa è scoppiata la pandemia. È stato allora che ho contattato la Tavola Valdese e l’Unione Battista offrendo il mio supporto e accompagnamento, nel ruolo di supervisora, ai colleghi e alle colleghe che stavano vivendo e lavorando in uno stato di trauma globale. In questo ruolo, e ascoltando le loro difficoltà, è cresciuto in me il desiderio di rimanere in Italia; è seguito poi l’incoraggiamento a presentare la mia candidatura come docente per la vacante cattedra di teologia pratica della Facoltà valdese. L’anno scorso sono stata eletta per questo incarico con mia sorpresa e grande riconoscenza alla comunità valdese e a Dio».

Cosa privilegerà nel suo programma didattico? Come auspica che sia la relazione con gli studenti e le studentesse?

«La formazione dello studente/studentessa che si prepara a curare e guidare una comunità di fede sarà certamente al centro del mio insegnamento. La teologica pratica si impara portando in campo, nell’applicazione pratica tutta la teoria che si è imparata con gli atri colleghi e colleghe nei corsi di sistematica, storia, ermeneutica, esegesi, etc. Oltre ad insegnare la metodologia di integrazione delle varie discipline, al servizio della cura e della pratica quotidiana della guida di una comunità, cercherò di fare attenzione al benessere spirituale, emotivo, relazionale del futuro pastore/a perché se non impara sulla propria pelle cosa significa ricevere cura, attenzione, compassione, ascolto, ed accoglienza, poi sarà difficile poter offrire questi doni nel contesto comunitario a cui ogni studente sarà chiamato/a. Vorrei cominciare i corsi utilizzando questa pedagogia, che parte dall’esperienza, poi si muove in dialogo con la teoria, per poi ritornare attraverso la riflessione teologica ad una nuova modalità pratica, che si arricchisce e raffina nel corso della pratica».

Dai primi colloqui che hai avuto, qual è a suo avviso il maggior bisogno degli studenti?

«Sarà importante che chi intraprende gli studi teologici comprenda quale sia la propria vocazione: lavoreremo sul senso di identità pastorale e del senso di chiamata. Ci sono tante modalità per servire il Signore, non tutti/e sono chiamati/e alla forma di ministero pastorale che le nostre chiese richiedono e che il nostro contesto socio-politico richiede al momento; coltivare la capacità di mettere a fuoco la vera vocazione di ciascuno, darà anche la possibilità di suscitare nuove vocazioni».

E forse anche di mettersi al riparo da future frustrazioni?

«Si può imparare a non farsi soverchiare dalla frustrazione, e questo fa parte della crescita emotiva e spirituale di ciascuno/a di noi. In psicologia esiste la “frustrazione ottimale”, che è quella che ci serve per migliorare; se essa è eccessiva ci soverchia, e se non ce ne è per niente allora produce inerzia. Bisogna trovare la maniera per saper gestire al meglio anche le frustrazioni. Ciò che cercherò di insegnare agli studenti è di avere una postura pastorale mirata verso la compassione, l’ascolto, l’empatia che, sono ingredienti essenziali per il lavoro pastorale, ma che vanno anche coltivate e praticate nella vita personale, familiare, quotidiana. Con gli strumenti giusti, si può essere più efficienti e sani, per se stessi/ e per il bene delle comunità che serviamo».

C’è un testo biblico che la sta accompagnando, ispirando in questa nuova fase della sua vita professionale e di credente?

«C’è un versetto che mi ha guidato in diversi momenti della mia vita e che mi risuona attuale: si tratta di Michea 6: 8 “Che altro richiede da te il Signore, se non che tu pratichi la giustizia,
che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio?”. In queste tre azioni, continuo a trovare la formula giusta per mantenere la mia vita vocazionale allineata con il volere e la guida dello Spirito di Dio: la giustizia è un ingrediente essenziale in ogni interazione pastorale; la misericordia mi ricorda che anche io ho bisogno di auto-compassione e cura, e della grazia di Dio; e l’invito a camminare umilmente con Dio mi ricorda di contenere il mio ego, e di ancorare ogni mia decisione e ogni mio passo nel rapporto di comunione con Dio che, con la preghiera e varie discipline spirituali, cerco di coltivare fedelmente».

Foto di Pietro Romeo