Liquidatori, eroi non sempre riconosciuti

La morte per suicidio di uno dei tecnici che intervennero dopo l’incidente alla centrale nucleare di Cernobil

Una volta si parlava di conflitti di “ bassa intensità”: guerre che scorrevano sottotraccia facendo i loro morti, che non esplodevano se non saltuariamente per poi nascondersi e darsi altri appuntamenti luttuosi più tardi. Ci fu un libro, nel 1990, proprio con questo titolo, sul caso della guerra civile in El Salvador (1979-1992). Sofferenze che si protraevano e non erano colte se non da pochi; conflitti gestiti, anche, per non destare troppa attenzione. Un po’ come la produzione di radiazioni che ha continuato a scaturire da quel che restava (e resta) della centrale nucleare di Cernobil (Ucraina), il cui reattore n. 4 cedette il 26 aprile 1986. Tanti, tantissimi i morti della prima ora e tanti, tantissimi quelli dei primi giorni e settimane.

I cosiddetti “liquidatori”, tecnici e operai, ma anche Vigili del fuoco e poi giornalisti, fotografi, cineoperatori: quanti furono esposti all’incendio, poi domato, hanno letteralmente portato su di sé malattie spesso incurabili e in ogni caso pesantissime nei loro effetti; un carico di sofferenze di cui abbiamo avuto un’eco profonda anche nel lungo periodo in cui centinaia di associazioni hanno ospitato bambini e bambine della Bielorussia, maggiormente colpita dalle radiazioni.

Il documentario realizzato nel 2003 per Tg2 Dossier, dal titolo I dimenticati di Cernobil, racconta degli effetti che ancora si protraevano su una popolazione e un intero ecosistema; degli anziani che non volevano abbandonare i villaggi evacuati, degli interventi dei primi giorni, della pellicola stessa della cinepresa che si deteriorò nel tempo (e i suoi buchi diventavano una tragica immagine involontaria), dell’ospedale in cui un pediatra vestito da clown accompagnò un manipolo di piccoli degenti alla fine, esaurito ciò che la scienza poteva fare per loro. C’è anche un vecchio soldato che aveva a suo tempo combattuto i nazisti, che nelle riprese sfoggia una panoplia di medaglie appuntate sul petto. Il documentario vinse un premio al concorso intitolato a Ilaria Alpi, giornalista del Tg3 uccisa in Somalia insieme all’operatore Miran Hrovatin.

Ecco, esposto al massimo grado di drammaticità, ciò che significa “bassa intensità”. L’emissione di sostanze pericolose non ha mai smesso di prodursi in quella zona. Si continua a morire, intorno a Cernobil. Ma per qualcuno la sofferenza è stata dilazionata nel tempo: fra i primi ad accorrere sul posto, un tecnico supervisore, Viktor Smagin, ha resistito da allora ai plurimi tumori che l’avevano colpito. È passato da un intervento chirurgico all’altro, ha tirato avanti. E, come ricorda La Repubblica (26 ottobre), ha dovuto subire anche un altro malanno, una sorta di stigma, una serie di restrizioni alla possibilità di lavorare. Chissà, forse per qualcuno, pur avendo salvato delle vite, non aveva fatto abbastanza. E poi, pesa proprio la sensazione di essere sopravvissuto a scapito di altri, che non ce l’hanno fatta.

Fatto sta che il tempo, oltre alle gravi insorgenze tumorali, hanno fiaccato, alla fine, questo lavoratore di 75 anni che, dopo l’incidente della centrale a cui lavorava, ha visto cambiare il mondo: il regime di cui Cernobil era emblema per l’ingestibilità è crollato, come pure il Muro di Berlino e così gli antichi equilibri. Nuovi drammi percorrono quell’area (da far tremare i polsi pensare alla centrale di Zaporizhzhia, in Ucraina come Cernobil, più moderna, certo, ma circondata dalla guerra). Tanto tempo? Poco? Troppo per una percezione che potesse avere un minimo di sostenibilità. E lui si è gettato dal balcone. Difficile sapere se avrebbe avuto possibilità di salvarsi: ogni tanto però qualcuno dei liquidatori lascia questo mondo, che nel frattempo si è tuffato in un’altra èra. Qualcuno porta ancora i segni del Novecento. Ci lascia però il senso del dovere, anche come denuncia di chi non lo ebbe.