Il volto oscuro della moda

Un incontro a Firenze organizzato anche dalla Commissione Globallizzazione e Ambiente della Fcei

 

L’abito non fa il monaco, di sicuro però inquina parecchio! Il 6 e il 7 dicembre a Firenze la commissione Fcei (Federazione delle chiese evangeliche in Italia) che si occupa di globalizzazione, lavoro e ambiente ha organizzato (in collaborazione ad altri, tra cui la comunità valdese che ha ospitato) un convegno sul “volto oscuro del fast fashion”. Irene Abra (dalla Finlandia!) ci ha permesso di esplorare il mercato di Kantamanto, in Ghana: l’enorme distesa di bancherelle di abiti usati che dava lavoro a circa 30.000 persone, prima di essere devastato da un terribile incendio.

 

Quando riponiamo negli appositi cassonetti gli abiti dismessi, fiduciosamente convinti di aiutare i poveri e l’ambiente… ci auto-illudiamo. Chi raccoglie non ha la capacità di smistare la mole di abiti e ridistribuirli ai bisognosi e in realtà la stragrande maggioranza della merce è venduta a bassissimo prezzo, trasportata in altri paesi. Un sistema praticato in tutta Italia, spesso in modo poco trasparente, tanto da attirare l’attenzione della commissione sulle ecomafie.

 

L’economia di rapina non solo è alla base della produzione del tessile, ma non meno grave è il problema irrisolto dello smaltimento. La quantità spropositata di rifiuti tessili, soprattutto di provenienza europea, riversati in alcuni paesi africani ha un impatto devastante e si profila come un nuovo sfruttamento coloniale. Abiti, per lo più di infima qualità, composti da fibre sintetiche, sono già deteriorati al loro arrivo; vengono bruciati (producendo fumi tossici) o finiscono in mare. Il venduto procura introiti, ma distrugge le produzioni locali e stravolge la cultura tradizionale.

 

Sara Caudiero, sindacalista dei Sudd Cobas ci ha illustrato le condizioni a cui vengono costretti i lavoratori nell’area di Prato. Una situazione che ci porta indietro di oltre cento anni. È del 1906 la proposta di legge per ridurre l’orario di lavoro a otto ore giornaliere; e 8×5 (ovvero la richiesta di contratti a 40 ore settimanali) è anche l’obiettivo e lo slogan del piccolo sindacato locale. A costo di durissime lotte (scioperi a oltranza, picchetti, presidi permanenti che sfidano il freddo e gli attacchi anche fisici) sta ottenendo risultati in termini di contratti ottenuti, sindacalizzazione dei lavoratori, creazione di una rete di solidarietà. È stato chiesto come abbiano fatto a conquistare la fiducia dei lavoratori (stranieri); «Non abbiamo mai promesso la vittoria, ma il nostro esserci. Hanno capito che saremmo rimasti accanto a loro». Una risposta che fa riflettere sulla postura adatta da tenere di fronte alle ingiustizie.

 

Il terzo momento è stato gioioso: scegliere liberamente tra gli indumenti usati messi a disposizione. Scartata l’ipotesi del cassonetto, che fare con gli abiti avanzati? Replicare l’iniziativa in un contesto più pubblico, esporre cartelli che spiegano quanto sia importante la scelta, la gestione e lo smaltimento degli abiti, raccogliere offerte in solidarietà con gli operai in sciopero?