No al caporalato made in Italy
Associazioni chiedono norme più severe per i marchi del lusso
Non è stata una passerella né un evento glamour quello che ha riportato recentemente sulle prime pagine dei giornali nomi come Armani, Loro Piana, Valentino e Tod’s. Ma l’ennesima inchiesta della Procura di Milano che ha svelato l’altra faccia del lusso italiano: fabbriche nascoste, lavoratori pagati pochi euro l’ora, turni massacranti e condizioni degradanti. Dietro l’etichetta “Made in Italy” si nasconde un sistema di sfruttamento strutturale, dove i grandi marchi si avvalgono di fornitori e subfornitori che violano le leggi e i diritti fondamentali.
Ora, mentre la magistratura fa luce su questa catena di abusi, il Parlamento rischia di fare il passo opposto.
La denuncia arriva da varie associazioni, compresa, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione che scrivono:
«Con il Disegno di Legge sulle Piccole e Medie Imprese (DDL PMI), già approvato al Senato, il Governo propone una certificazione volontaria di conformità della filiera che — dietro l’apparenza di trasparenza — nasconde un pericoloso scudo penale per le aziende capofila, anche in caso di caporalato nella subfornitura».
«Questa proposta – si legge ancora – non tutela il Made in Italy, ma lo tradisce», denunciano le organizzazioni firmatarie che hanno lanciato un appello urgente ai deputati e alle deputate: «Non votate un testo che legalizza l’impunità dello sfruttamento».
Le inchieste milanesi hanno mostrato che le case madri non possono dirsi estranee agli abusi nelle proprie filiere. «Eppure, invece di rafforzare le responsabilità e introdurre obblighi di due diligence vincolante, il DDL PMI propone una certificazione su base volontaria — l’ennesimo bollino che rischia di diventare un paravento per comportamenti irresponsabili e un ulteriore onere burocratico per i fornitori»
A maggio, Regione Lombardia ha firmato un Protocollo per la legalità nella moda, che prevede una piattaforma di filiera sviluppata dal Politecnico di Milano. Ma anche in quel caso, l’adesione resta volontaria.
«Qualsiasi misura volontaria, che non sposta l’onere di controllo e prevenzione, e i relativi costi, in capo ai committenti stessi (due diligence) è destinata ad avere impatti molto limitati», afferma Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, network internazionale composto da oltre 220 organizzazioni che da oltre vent’anni si batte per il rispetto dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del tessile e per un settore compatibile con i limiti del pianeta.
Le organizzazioni promotrici chiedono al Parlamento di eliminare lo scudo penale dal DDL PMI: «il vero Made in Italy non nasce dallo sfruttamento, ma dal lavoro dignitoso. È tempo che la politica stia dalla parte di chi lavora, non di chi chiude gli occhi».
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