Teologia politica o politica teologica?
Un importante convegno alla Facoltà valdese di Roma ha coinvolto anche altri istituti universitari
Dal 6 all’8 novembre 2025 si è tenuto alla Facoltà valdese di Teologia di Roma il convegno internazionale Political theology, or theological politics?, organizzato con la Stellenbosch University del Sud Africa e la Reet (Red Ecumenica de Educación Teológica). I sedici relatori provenivano in gran parte dalle istituzioni promotrici, ma anche da altri atenei, come la Pontificia Facoltà teologica Marianum: segno delle solide relazioni accademiche, nazionali e internazionali, che la Facoltà valdese coltiva con profitto.
L’incontro è stato aperto dalla diacona Alessandra Trotta, moderatora della Tavola valdese, che ha richiamato l’urgenza del tema in un tempo segnato da interconnessioni e disuguaglianze. Le chiese, ha detto, sono chiamate a ripensare la loro presenza nello spazio pubblico, evitando sia il ritiro spirituale sia l’identitarismo esclusivo. Una tensione antica, ma oggi più acuta, in un cristianesimo sospeso tra la tentazione del silenzio e quella della supremazia.
Trotta ha ricordato, con le parole di Tullio Vinay, che la conversione – il cambiamento di mentalità a cui i cristiani sono chiamati – non avviene nell’astratto, ma nella realtà concreta, anche fuori dalle mura del tempio, come segno del Regno che viene.
Due interventi della seconda giornata – dei professori Eric Noffke e Len Hansen – hanno dato corpo a questa intuizione, declinando i crudi anglicismi del titolo in un linguaggio utile alla Chiesa. La teologia politica, ha ricordato Noffke, non è un apparato ideologico ma un linguaggio critico che permette alla fede di discernere nella storia come Dio si rivela e di dire: «non così, ma».
Noffke (Facoltà valdese di Teologia) ha affrontato Romani 13, 1-7, uno dei testi più discussi del Nuovo Testamento: «Ogni persona sia sottomessa alle autorità costituite». Parole usate per secoli per giustificare obbedienza e autoritarismo. Ma, ha spiegato, Paolo scrive a una piccola comunità dentro l’Impero e usa il linguaggio del potere per rovesciarlo: Kyrios, sōtēr, euangelion — titoli imperiali — vengono riferiti a Cristo, disinnescando l’ideologia del dominio. Le letture anti-imperiali e postcoloniali restituiscono al passo il suo valore liberante: non sottomissione cieca, ma lucidità credente, la libertà di abitare il mondo senza appartenervi e di creare comunità che incarnino un ordine alternativo.
Da qui, la riflessione di Len Hansen (Stellenbosch University) ha ampliato l’orizzonte verso la “mistica degli occhi aperti” di Johann Baptist Metz e Dorothee Sölle. Per Metz la fede è memoria passionis, coscienza che non si lascia anestetizzare: la mistica non consola, ma assume il dolore del mondo e spera contro l’evidenza. Sölle radicalizza: «La resistenza non è conseguenza della mistica, è la mistica stessa». Trovare Dio significa tornare nel mondo con occhi spalancati su ciò che soffre, agendo con la compassione di Dio. Non evasione, ma responsabilità; non isolamento, ma pratica di giustizia.
Tra Noffke e Hansen si apre un dialogo fecondo: la Scrittura, letta nel suo contesto, e la mistica, vissuta nel presente, convergono in una libertà spirituale e politica scevra da soggezione. Entrambe invitano ad abitare la realtà con sguardo vigile e cuore esposto, a rompere la complicità con i poteri che anestetizzano la coscienza e a restituire al credere il suo respiro etico.
Da queste giornate resta l’impressione di un cantiere vivo: la teologia politica non come sistema, ma come pratica di discernimento. Lì dove la mistica apre gli occhi, la fede può ancora generare linguaggi di resistenza e libertà condivisa – non per fuggire dal mondo, ma per trasformarlo.