Il pluralismo che la politica non vede

L’insostenibile distanza tra i segnali di pluralismo e la paralisi che di fatto ha fermato i percorsi di riconoscimento giuridico e di intesa di confessioni religiose sempre più numerose e radicate

 

Nei giorni scorsi la Comunità induista ha celebrato il Diwali: una festa, detta delle luci, che ricorda un episodio dell’epica indù, interpretato come la vittoria del bene sul male. L’evento è stato ricordato anche in Senato, a sottolineare che ormai anche l’induismo è una tessera del mosaico religioso che si è lentamente composto anche in Italia. 

Un piccolo segnale di cambiamento profondo della religiosità nel nostro Paese. 

 

Giovedì scorso, presso l’Università di Modena, è stato presentato un volume sui sikh in Italia, vivacizzato dalla presenza di numerosi giovani di questa Comunità che pian piano l’Italia sta imparando a conoscere. Li vediamo nei campi agricoli, spesso costretti a lavorare in situazione di estremo sfruttamento, ma anche in posti di responsabilità nelle nostre industrie o nelle reti commerciali internazionali. 

Un altro segnale. 

 

Il terzo, più forte e ben registrato dai media, è stato il recente evento mondiale promosso a Roma dalla Comunità di sant’Egidio sotto lo slogan “Osare la pace”. Nell’anno del Giubileo cattolico, questo incontro ha mostrato la ricchezza del panorama religioso italiano. Per quattro giorni cristiani e musulmani, ebrei e buddisti, induisti e sikh e via via i credenti di tante comunità di fede si sono incontrati per conoscersi, discutere e pregare. 

In un mondo in cui le guerre si combattono anche in nome delle identità religiose, quell’incontro è stato un controvertice che ha proclamato, con le parole di papa Leone, che «solo la pace è santa». 

 

Parole, certo, i gesti sono altra cosa e ancora sono in troppi a benedire armi ed eserciti, ma, almeno, sono state le parole giuste dette insieme da leader religiosi di comunità diverse e talora divise.

Comunque, segnali positivi che raccontano un pluralismo confessionale sempre più evidente nella società italiana, ma sempre più distante dai palazzi delle Istituzioni. Per ragioni evidentemente connesse con il peso del superato confessionalismo giuridico, a lungo vigente in Italia, la libertà religiosa delle altre comunità è condizionata da norme farraginose, obsolete e ancora segnate dal pregiudizio che la libertà religiosa non è un diritto ma una concessione. Esiste, quindi, una gerarchia dei riconoscimenti pubblici delle varie confessioni che ancora oggi spinge verso i gradini più bassi milioni di persone, sempre più italiani, di altre fedi: musulmani, ortodossi, sikh, molti evangelici.

 

Ed ecco l’insostenibile distanza tra i segnali di pluralismo, sempre più evidenti sul piano sociale, e la paralisi politica che di fatto ha fermato i percorsi di riconoscimento giuridico e di intesa di confessioni religiose sempre più numerose e radicate nel nostro paese. 

Nei dialoghi interreligiosi questo tema viene posto solo raramente, perché appare divisivo e carico di implicazioni che rischiano di turbare l’irenico spirito di unità che si vuole affermare. E così le diverse confessioni appaiono allineate sul palco del dialogo, ma posizionate in una scala gerarchica sul piano dei diritti. 

È una contraddizione che limita la libertà religiosa e che certo non fa bene al dialogo. 

 

 

La rubrica «Essere chiesa insieme» a cura di Paolo Naso è andata in onda domenica 2 novembre durante il «Culto evangelico», trasmissione (e rubrica del Giornale Radio) di Rai Radio1 a cura della Federazione delle chiese evangeliche

in Italia. Per il podcast e il riascolto online ci si può collegare al sito www.raiplayradio.it