La fede audace di una donna

Un giorno una parola – commento a Luca 8, 43-44

 

 

Tu hai preservato l’anima mia dalla morte, i miei occhi dalle lacrime, i miei piedi da cadute

Salmo 116, 8

 

Una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva speso tutti i suoi beni con i medici senza poter essere guarita da nessuno, si avvicinò di dietro e gli toccò il lembo della veste; e in quell’istante il suo flusso ristagnò

Luca 8, 43-44

 

C’è un dolore che dura da dodici anni. Una donna vive segregata, consumata dalla malattia, esclusa dal culto e dalla vita sociale. La sua ferita non è solo fisica: è un dolore che la isola, che la separa da Dio e dagli altri.

Secondo la Legge, quella donna non dovrebbe essere lì. La sua malattia la rende impura, toccarla significava contaminarsi. Eppure, proprio lei si fa spazio nella folla e tocca l’orlo della veste di Gesù. Non chiede il permesso, non chiede l’aiuto di un uomo, non aspetta che altri intercedano. Agisce. Il suo gesto è fede, ma è anche resistenza. È una mano che rompe il silenzio e che osa disobbedire a un sistema che la voleva invisibile.

Gesù non la rimprovera. Non le ricorda i confini della Legge. Riconosce invece che da Lui è uscita potenza: vita che sgorga e vince la morte, forza che libera e reintegra. In quell’istante non è più l’impurità a contaminare, ma la grazia a trasformare.

 

Questa scena non appartiene solo al passato. Oggi il corpo delle donne continua a essere terreno di battaglia: aborto, contraccezione, maternità surrogata, violenza maschile. Troppo spesso politica, società e chiese parlano del corpo femminile senza ascoltare le donne stesse. Ma il Vangelo non dice che il corpo femminile è impuro: mostra che proprio lì, nella carne vulnerabile e ferita, si rivela la potenza salvifica di Dio.

Il gesto dell’emorroissa diventa allora un atto profetico: non accetta di essere definita solo dalla sua malattia, né dalle regole che la condannano al silenzio. Si espone, rischia, prende parola con il proprio corpo. In lei la fede non è rassegnazione, ma audacia.

 

Gesù la riconosce. Quando la chiama “figlia mia”, non solo la guarisce, ma la reintegra nella comunità. In un contesto patriarcale che la condannava al silenzio, Gesù la colloca al centro, le restituisce dignità. Così il Vangelo apre lo spazio per una comunità nuova, dove la voce delle donne non è sopportata o controllata, ma riconosciuta come luogo in cui Dio stesso parla e agisce.

Il tocco di quella donna è il segno che la vita nuova passa attraverso ciò che è fragile e disprezzato. È lì che si manifesta la promessa di un Dio che non respinge ma accoglie, che non silenzia ma ascolta, che non esclude ma reintegra. Amen.