La paralisi della Francia, incubo di Macron
La necessità di fronteggiare il debito pubblico blocca qualsiasi ipotesi di riforme sociali
Il colmo per un presidente giovane come Emmanuel Macron, il “rottamatore” francese, giunto all’Eliseo nel 2017 e capace di scardinare l’equilibrio politico che aveva retto la Francia dagli anni Sessanta, è di terminare il suo mandato paralizzato e con le mani legate.
Privo di maggioranza in Parlamento, Macron ha cambiato quattro primi ministri nell’arco dell’ultimo anno, due dei quali – Michel Barnier e François Bayrou – tra i più effimeri della storia. Il premier attuale, Sébastien Lecornu, non è altro che l’alleato più longevo e fedele del presidente, al governo, pur con funzioni diverse, da sette anni.
«Il Presidente spara l’ultima pallottola del Macronismo, asserragliato con la sua cerchia stretta di fedeli», ha dichiarato metaforicamente la capogruppo del Rassemblement national, Marine Le Pen.
Paralisi istituzionale e debito pubblico. Per anni la Francia è stata sinonimo di stabilità politica: grazie al sistema elettorale a due turni, il governo poteva contare su un solido blocco di maggioranza parlamentare, tanto da rendere le opposizioni quasi superflue. L’arrivo di Emmanuel Macron e la crescita costante dell’estrema destra, senza dimenticare le lotte intestine tra le varie anime della sinistra francese, hanno completamente stravolto il panorama politico d’Oltralpe. Dopo lo scioglimento a sorpresa dell’Assemblea nazionale a giugno 2024, l’estrema destra, lo “zoccolo comune” composto dal centrodestra e dal centro e l’alleanza delle sinistre si contendono la leadership in Parlamento, minacciando di votare la sfiducia non appena il governo propone delle grandi manovre, tra cui quella finanziaria.
Proprio la legge di bilancio è l’ostacolo principale, ostaggio di un debito pubblico ormai fuori controllo: 3.345,8 miliardi di euro, di cui 1.000 miliardi attribuibili a Macron. I conti pubblici francesi non sono mai stati così in rosso per effetto di una spesa pubblica che supera gli introiti da 50 anni, dei costi straordinari dovuti alla pandemia e all’aumento dei prezzi dell’energia dopo l’invasione russa dell’Ucraina e di un taglio delle tasse volto a stimolare il consumo, particolarmente oneroso.
La questione sociale. L’incapacità dei partiti francesi di dialogare impedisce l’adozione di riforme maggiori, che pure non erano mancate nella prima parte della presidenza di Macron: l’ambiziosa legge sulla pianificazione ambientale, l’inserimento dell’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) nella Costituzione francese, un aumento del 40% della spesa militare per fronteggiare le nuove minacce e l’impopolare riforma delle pensioni, che ha portato l’età pensionabile da 62 a 64 anni.
Ma nonostante i tentativi di modernizzare la società francese, il presidente ha spesso ignorato e represso violentemente il malcontento generale: le rivendicazioni dei “gilet gialli” non sono mai state prese sul serio e la frattura tra le classi popolari e la classe dirigente è ormai definitiva.
Fette sempre più importanti delle società hanno smesso di credere alle promesse di “rottura” e di miglioramento della qualità della vita: sette francesi su dieci dichiarano di sentirsi più poveri rispetto al passato e il divario tra ricchi e poveri è ai massimi livelli dagli anni Settanta, con un quinto delle ricchezze del paese concentrato nelle mani dell’1% più benestante. La Cgt, primo sindacato di Francia, ha recensito oltre 280 siti industriali minacciati da chiusure o licenziamenti, con circa 280.000 posti di lavoro a rischio.
Un cocktail esplosivo che sbatte costantemente contro l’intransigenza del presidente, difensore accanito di una politica concentrata sull’offerta – riduzione delle tasse, diminuzione del costo del lavoro, incentivi per investire in Francia – e che ha provocato profonde situazioni di disagio e valendogli l’appellativo di “presidente dei ricchi”, un soprannome di cui non è mai riuscito a liberarsi.
L’uscita dalla crisi. Il nuovo premier francese, in un discorso lampo durante il passaggio delle consegne, ha promesso una vera politica di “rottura” rispetto agli ultimi anni, «non solo nella forma, nel metodo. Una rottura anche nel merito, nella sostanza».
Dopo le prime consultazioni e le dichiarazioni alla stampa, è difficile credere che riuscirà nel suo intento: se da un lato il centrodestra, alleato in Parlamento, spinge per ridurre drasticamente la spesa pubblica, i socialisti, l’unica stampella grazie a cui Lecornu può sopravvivere fino alla manovra finanziaria e forse oltre, esigono una sospensione della riforma delle pensioni, l’introduzione della “tassa Zucman” sui patrimoni da oltre 100 milioni di euro e una riduzione dei tagli previsti. Il tutto con la pressione del Rassemblement national, prima forza politica all’Assemblea nazionale, che non vede l’ora di sfiduciare il governo, vincere le prossime (eventuali) elezioni legislative e vedere il proprio beniamino, Jordan Bardella, sedere al posto di Lecornu. Una coabitazione che sancirebbe definitivamente il fallimento di Macron.
Daniel Peyronel è giornalista indipendente, a Parigi dal 2018: si occupa di cambiamento climatico e politica francese, collaborando con testate tedesche, francesi e italiane e redigendo una newsletter settimanale sulla Francia.