L’idea di Patto non cessa di interrogarci

Una grande ricchezza di stimoli per la riflessione è scaturita dalla Giornata teologica “Giovanni Miegge”

 

Alla fine della Giornata teologica “Giovanni Miegge”, organizzata dal Corpo pastorale e dal Centro culturale valdese, dopo le relazioni, le domande e un secondo giro da parte degli oratori, nella necessità di metabolizzare i contenuti forti espressi intorno al tema «Patti chiari: dal Sinai al Patto delle Nazioni Unite», rimane la sensazione di una questione aperta, che non cessa di interrogarci.

 

Certo, in primo luogo la seduta si inseriva nel solco del ricordo dei 50 anni dal Patto di integrazione fra le chiese valdesi e metodiste, e quindi a pieno titolo è stato importante avere una riflessione che muoveva dai racconti biblici – Daniele Garrone, professore emerito di Antico Testamento alla Facoltà valdese di Teologia – per rivolgersi poi alle fonti del diritto, in particolare internazionale (Michele Vellano, Università di Torino) e interno (Ilaria Valenzi, Fcei e Sapienza Università di Roma). Del resto, già l’introduzione del pastore Winfrid Pfannkuche aveva segnalato che, mentre l’idea di patto è elemento strutturante e unificante dei due Testamenti ma anche della teologia, in quanto attiene al rapporto tra esseri umani e Dio, assistiamo giornalmente alla violazione di molti degli elementi pattizi che dovrebbero poter regolare i rapporti, per esempio, internazionali.

 

Garrone ha poi toccato la problematica del carattere dei patti nella Bibbia: sono da intendersi come accordi bilaterali o prevale l’idea di una iniziativa autorevole – la più autorevole poiché viene da Dio stesso – rivolgendosi al proprio popolo. Dio può prescindere dalla risposta che riceve: se stabilisce che «non ci sarà più diluvio per distruggere la terra» (Genesi 9, 11), Egli farà così anche se noi umani, insomma…, non sempre ottemperiamo. Ma quello che è intrigante, date queste premesse, è non solo l’autorevolezza del Signore, ma anche (e questa è una riflessine mia), ciò che accade a noi su questa terra. Mi chiedo: al di là della regolazione dei rapporti tra Dio e il suo popolo, che cosa ne è di uomini e donne di questo stesso popolo, in che modo veniamo cambiati da questo gesto, specialmente se unilaterale? Viene da pensare alla lettura che Michael Walzer, filosofo della politica, ha dato dell’Esodo (Esodo e rivoluzione, Feltrinelli 1986) e dell’attraversamento del deserto come maturazione, acquisizione di una consapevolezza che prima non c’era. Il Patto forse dà una nuova strutturazione a ognuno e ognuna di noi. Possono verificarsi degli atti di «non-osservanza» dell’impegno preso, da parte nostra, ma comunque qualcosa si è mosso nella nostra umanità, che non è più quella di prima. Sappiamo essere costanti nel ringraziare Dio di tutto ciò?

 

Perché poi, in effetti, assistiamo a una serie di violazioni degli impegni presi: essi – ha detto Vellano – sono stabiliti «fra i popoli», e ciò presuppone innanzitutto un mutuo, reciproco riconoscimento, che sancisca la necessità di attribuire a qualcuno l’uso eventuale della forza, facendo «come se Dio non ci fosse». Una sorta di concezione laica del Patto, il cui primo nome di riferimento è quello di Grozio. E le chiese protestanti possono avere un ruolo nel dialogo fra parti in conflitto? Che possono fare? Tre cose: diffondere la corretta conoscenza del diritto internazionale e soprattutto il fondamento del richiamo alla legalità dei comportamenti; invocare il rispetto del diritto stesso (come si espresse il Sinodo 2024 su Israele/Palestina); invocare le Convenzioni firmate dai singoli Stati e reclamarne l’applicazione da parte di giudici interni (art. 117 Cost.). Parallelamente, è più ricorrente un impegno della Chiesa cattolica in dialoghi bilaterali.

 

Il patto relativo alla cittadinanza – ha poi detto Valenzi – è posto a fondamento dello stare insieme. Ne ha dato una versione essenziale G. Enrico Rusconi nel dire che ciò significa accedere a beni di cui abbiamo bisogno, e poter usufruire dell’esercizio dei diritti politici. È questo un impegno comune per tutte le persone che si riconoscono in un comune sentire politico, costituzionale e comunitario, e quindi è automatico che il patto in questo caso preveda reciprocità. Altra cosa, però, è rifarsi a dei principi, e altra è riferirsi a dei valori. Il discorso si complica molto quando è l’azione legislativa a suggerire dei valori, dando dei giudizi sui comportamenti delle persone, ed eventualmente sanzionandoli (è il caso del “pacchetto sicurezza”). E che succede poi quando uno Stato con assetto democratico elegge democraticamente qualcuno che si muove fuori da ciò che intendiamo comunemente per democrazia?

 

Sono tutte questioni poste alla nostra attenzione, e intrecciate con domande legate al nostro essere credenti, come dimostrato da alcune delle domande seguite alle relazioni: per esempio il rapporto fra Patto e memoria, Patto e vocazione. Intanto sappiamo, però, di essere costantemente sotto lo sguardo di chi ci ha amato per primo, che ci chiama e ci cambia – se ci lasciamo cambiare –, e che non viene meno alle proprie promesse.