Michel Charbonnier: alla ricerca di una parola profetica

Intervista al pastore valdese che siede nel Comitato centrale del Consiglio ecumenico delle chiese

 

Nella seconda metà dello scorso mese di giugno, si è riunito a Johannesburg, in Sudafrica, il Comitato centrale del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec).

Il Cec è una comunione di oltre 350 Chiese cristiane presenti in più di 120 paesi, che rappresentano centinaia di milioni di cristiani e cristiane in tutto il mondo. Sono chiese protestanti, ortodosse, africane, evangeliche e anche di altre tradizioni. Il Consiglio non include la Chiesa cattolica romana come membro, ma con esso collabora su molti fronti. Il Cec nasce con l’obiettivo di promuovere l’unità visibile della chiesa di Cristo attraverso il dialogo, attraverso la testimonianza comune e l’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato.

 

Composto da 158 membri, il Comitato centrale è l’organo direttivo dell’organismo ecumenico mondiale: si riunisce ogni due anni ed è incaricato, tra l’altro, di dar seguito alle decisioni dell’Assemblea del Consiglio ecumenico e di supervisionarne i programmi. Nel Comitato centrale siede il pastore valdese Michel Charbonnier a cui abbiamo rivolto alcune domande

 

 

 

Il pastore Michel Charbonnier

Parliamo delle decisioni del Comitato centrale. Sfogliando i comunicati stampa che rendevano conto delle riunioni, emerge che il Comitato ha affrontato temi di grande rilevanza, a cominciare dal dilagare della violenza e l’idea che la forza militare possa essere usata per dirimere le controversie nel mondo.

Uno dei temi più forti affrontati dal Comitato centrale è stato proprio l’aumento della violenza, la crescente convinzione che le armi siano una via legittima per risolvere i conflitti. Il Cec ha ribadito invece con forza che la guerra è contraria alla volontà di Dio e che la pace non può mai nascere dall’uso della forza. Eravamo in Sudafrica, a quarant’anni esatti dal Kairos Document, un testo profetico scritto contro il regime nel pieno dell’apartheid da teologi e pastori che abbiamo avuto il privilegio anche di incontrare, e da lì abbiamo riconosciuto che anche oggi viviamo un kairos, cioè un momento critico e decisivo in cui le chiese sono chiamate a una testimonianza profetica, a rifiutare ogni complicità con la logica della guerra e a promuovere il disarmo, la giustizia e il dialogo.

 

Sempre considerando le relazioni tra le nazioni del mondo, il Comitato ha voluto ricordare gli ottant’anni della nascita delle Nazioni unite. Come lo ha fatto?

L’ha voluto fare anche e soprattutto per sottolineare l’importanza del multilateralismo e del diritto internazionale, come strumenti fondamentali per costruire la pace e proteggere la dignità umana. In un contesto come quello in cui viviamo – segnato da guerre, da ingiustizie ed attacchi continui all’indipendenza del diritto internazionale, in cui da molte parti si delegittima e di fatto si cerca di smantellare questa istituzione – il Consiglio ecumenico ha riaffermato il suo sostegno agli strumenti creati dopo la Seconda guerra mondiale, come la convenzione sul genocidio e la Corte penale internazionale, e ha invitato gli Stati e le Chiese a difendere il diritto e la giustizia come pilastri della convivenza tra i popoli.

 

Un momento dei lavori del Comitato centrale; foto Hillert, CEC..

Nelle vostre riunioni avete parlato anche delle relazioni tra palestinesi e israeliane, di questo punto caldo del mondo, con una novità non da poco. Qual è?

Uno dei punti più significativi affrontati riguarda proprio la drammatica situazione in Israele e in Palestina. Il Comitato centrale, dopo un ampio dibattito, ha deciso di usare per la prima volta il termine apartheid per descrivere il sistema di dominio e di separazione imposto dallo Stato di Israele sul popolo palestinese. È una scelta forte, una scelta fatta con consapevolezza alla luce del diritto internazionale e delle analisi di varie organizzazioni per i diritti umani, sia israeliane che internazionali. È importante distinguere chiaramente tra il popolo ebraico, che è parte integrante della storia della salvezza raccontata nelle nostre Bibbie, con cui il Consiglio ecumenico coltiva un dialogo sincero, e invece le scelte del governo dello Stato di Israele che vengono qui denunciate per la loro violazione del diritto e della dignità umana. Questo non è rifiutare il dialogo; anzi, è un atto di verità e di giustizia che vuole aprire la strada alla pace, al rispetto dei diritti e a una soluzione giusta e duratura.

 

Tra le altre cose, avete anche deciso di dare il via al Decennio per la giustizia climatica. Che cos’è questo Decennio?

È una grande iniziativa ecumenica promossa dal Consiglio ecumenico delle chiese per rispondere e affrontare la crisi climatica come una questione di fede, di giustizia e anche di conversione spirituale. Nel titolo c’è la parola metanoia, c’è la parola trasformazione e l’idea è quella del bisogno di cambiare mentalità e stile di vita, come individui come comunità e come istituzioni. Non è la prima volta che il Consiglio lancia un decennio di questo tipo: c’è stato il Decennio delle chiese in solidarietà con le donne, il Decennio per superare la violenza. Iniziative che hanno, io credo, lasciato un segno concreto nella vita delle chiese, nella formazione, nelle politiche e nell’impegno sociale delle chiese. Anche questo decennio vuole provare a generare un cambiamento duraturo, mettendo al centro le voci delle periferie climatiche. L’idea, non nuova, nella riflessione del Consiglio è quella di missione dalle periferie; quindi, dare voce a chi vive nelle zone più colpite, ai giovani, ai popoli indigeni, ai popoli dell’Oceania, alle comunità vulnerabili, affinché siano protagoniste nel guidare le chiese verso l’impegno concreto. Quindi, si parlerà di teologia, ma anche di azioni politiche, di disinvestimento dalle energie fossili, di economia alternativa. È un cammino decennale ma che deve cominciare ora.

 

L’intervista è andata in onda durante la trasmissione radiofonica di RAI Radio1 “Culto evangelico” della scorsa domenica 13 luglio.