
Un’estate a “marcire”?
Una nuova (ma nemmeno tanto) tendenza nella gestione delle vacanze di bambini e adolescenti ci fa riflettere sul rapporto con le tecnologie, i tempi vuoti, le responsabilità degli adulti. Ne parliamo con Gianluca Palmieri
Con un termine un po’ spiazzante, “kid rotting”, dove rot sta per “marcire”, è stata definita una prassi che, a ben vedere, fino a un paio di decenni fa era la norma: lunghe estati in cui inventarsi cose da fare… Il New York Times, seguito da altri, ha scritto di questa “nuova tendenza”, chiamata anche, in modo meno inquietante e un po’ più suggestivo, wild summer (estate selvaggia), diffusasi negli Usa e in rapida espansione, che poi, appunto, nuova non è.
Nuovo, semmai, è il contesto in cui la si vuole applicare, completamente diverso dal passato, basti pensare alle tecnologie che trent’anni fa non c’erano.
Lasciando da parte l’aspetto economico (una delle molle di questa “moda”, insieme alla diffusione del lavoro da remoto), è davvero pensabile lasciare che bambini e ragazzi non più abituati a farlo autogestiscano i propri tempi e attività, liberare quei vuoti che in passato erano l’humus per scatenare la fantasia, l’iniziativa, la sana reazione a un’altrettanto sana noia?
Ne abbiamo parlato con Gianluca Palmieri, counselor, formatore e coordinatore di «PerForma», servizio di counseling per ragazzi e per adulti della Diaconia valdese a Firenze, che ci ricorda che l’espressione, richiamando il “brain rotting”, può avere due interpretazioni, «una più preoccupante, che parla del potenziale decadimento cerebrale dei ragazzi dovuto a un eccessivo uso dei dispositivi digitali, un’altra invece che vede un’opportunità di sviluppo dell’autonomia e della creatività. Peraltro l’espressione “kid rotting” non ha alcun fondamento scientifico: prendiamola come spunto di riflessione, guardando le opportunità che si creano non programmando ogni istante della vita dei ragazzi ma lasciando momenti meno strutturati in cui inventarsi qualcosa da fare… Diciamolo: c’è un po’ di nostalgia del passato, ma i tempi sono completamente diversi, è difficile prendere come riferimento situazioni di venti o trent’anni fa…».
Ecco, questo è il punto: la condizione di partenza dovrebbe essere il distacco dai dispositivi digitali… ma è possibile, se noi adulti, per primi, non ne siamo capaci? «C’è un gran parlare degli ipotetici danni di questi dispositivi: sicuramente l’abuso delle tecnologie, come ogni abuso, è dannoso, ma si è creata la situazione paradossale in cui gli adulti criticano i ragazzini perché usano troppo questi strumenti, però i maggiori “spacciatori” sono proprio loro… Siamo in un tempo in cui si governano i popoli, attraverso i social… è anacronistico demonizzare questi strumenti, bisogna creare le condizioni per svilupparne un uso critico, altrimenti il discorso è riduttivo e semplicistico».
Palmieri ricorda il concetto coniato da Luciano Floridi, filosofo dell’informazione, di società “onlife”: «Andando oltre il concetto di online, parla di un intrecciarsi di esperienze online e offline, tramite cui si creano contatti, sinergie, relazioni ed emozioni reali. Non ha più senso contrapporre “vita virtuale” e “vita reale”, bisogna educare alla “società onlife”, anche partendo dall’uso dei cellulari a scuola, è paradossale sequestrarli, quando sono indispensabili nello studio, nel lavoro… È importante capire che cosa fanno su Internet: stanno su un versante socializzante, o su un versante di uso solitario? Guardano dei film, dei video? Fanno ricerche? Ormai gli smartphone sono un supporto che raccoglie strumenti che una volta si trovavano in oggetti diversi: walkman, macchina fotografica, diario, telefono… Non sono un grande sostenitore dei social e delle nuove tecnologie però non mi piace l’idea imperante di criticare i ragazzi perché ne fanno uso; è molto più semplice dar loro addosso perché stanno cinque ore al telefono, ma senza chiedersi che cosa fanno esattamente…».
Il tema del kid rotting ci porta a un’ulteriore riflessione. Partiamo da una situazione in cui c’è un’organizzazione millimetrica del tempo dei figli, fin dall’età più tenera: è una necessità pratica, ma forse nasconde anche le nostre ansie di adulti? E dall’altra parte, la scelta di non organizzare tutto, ma di lasciare dei “tempi aperti”, può essere anche un modo per uscire da una logica della performatività sempre più pervasiva (e opprimente)?
«Questo è un tema importante, sicuramente bisogna riappropriarsi di spazi, del “vuoto fertile”, al di fuori di una logica della performance, però bisogna anche fare attenzione, perché kid rotting non significa abbandonare i ragazzi, come adulti dobbiamo comunque essere presenti, cercare di creare le condizioni in cui i ragazzi possano “pescare” la creatività, altrimenti può diventare pericoloso… Oggi ci sono buone fette di adolescenti per i quali essere tolti di punto in bianco da un tempo iper-strutturato può essere un rischio: non tutti hanno sviluppato la capacità di “stare nel vuoto” che “ai nostri tempi” era normale… Mettiamola così: il kid rotting può essere una buona opportunità se c’è un pensiero (degli adulti) dietro, può diventare un terreno fertile di autonomia, creatività, resilienza… la presenza degli adulti è importante, e non significa iper-proteggerli, ma capire se ci sono le condizioni per “lasciarli andare”, dar loro la possibilità di crescere… in una società in cui il senso di comunità e la socializzazione non sono quelli che abbiamo conosciuto noi. C’erano dei pericoli, ma il mondo era diverso. Oggi la situazione è molto più complessa, c’è una caduta importante della “comunità educante”, ci sono molte meno opportunità e più solitudine».
In conclusione, «il kid rotting è più impegnativo dell’iperprogrammazione: l’adulto deve essere più presente, essere disposto ad ascoltare di più, a mettersi più in gioco: io sono favorevole a una riscoperta di questa dimensione, però gli adulti devono essere nella condizione di poterlo fare, altrimenti si creano situazioni potenzialmente sfavorevoli».
Palmieri parla con cognizione, dal punto di vista privilegiato di chi, occupandosi da anni di counseling, si batte perché «qualsiasi tipo di progetto di intervento per i figli non può prescindere da un percorso di sostegno per i genitori». È quindi con particolare soddisfazione che ci segnala l’attivazione, da gennaio, di una nuova convenzione con i servizi sociali e sanitari di Firenze: «In questi mesi abbiamo cominciato a lavorare, sta andando molto bene, c’è molta richiesta e abbiamo incontrato genitori desiderosi di migliorare la qualità delle loro relazioni, questo è molto importante e incoraggiante…».