Résister. La giustizia delle donne
L’appuntamento di luglio con la nuova rubrica di Riforma, dedicata alle donne che resistono
A Srebrenica, città bosniaca addossata al confine con la Serbia, l’11 luglio 1995 fa diecimila musulmani bosniaci furono trucidati dall’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, con l’Onu a giocare il ruolo di Ponzio Pilato. Un genocidio, e anche qui la parola venne contestata, una polemica che continua a far comodo ai revisionisti, in uno scenario politico che oggi più che mai vede riacutizzarsi le tensioni. Trent’anni dopo, ben poco sembra risolto: lo scorso marzo il Memoriale di Srebrenica ha dovuto addirittura chiudere per un periodo perché non riusciva a garantire la sicurezza di dipendenti e visitatori.
Srebrenica è un buco nero nel cuore dei Balcani: se ci cadi dentro finisci per trovarti faccia a faccia con l’Europa, che non ha esitato a lasciar massacrare migliaia di persone, proprio lì dove avevano giurato di proteggerle. È il luogo dell’evidenza negata, nonostante le prove documentali, le sentenze dei tribunali internazionali, le ossa che continuano a emergere dalle fosse comuni. Da Srebrenica ieri a Gaza oggi il passo è breve: siamo tragicamente sempre gli stessi.
Trent’anni fa però è nato anche un movimento che ha dato visibilità alle migliaia di donne e ragazze vittime dello stupro di guerra; donne che avevano perso mariti e figli, che avevano visto la propria casa distrutta e che nessuno ascoltava. Grazie alle Donne in nero di Belgrado è nato infatti il Tribunale delle donne, interessato non tanto a emettere sentenze quanto a trasformare il dolore delle vittime in una forma di resistenza, che mostrasse il loro dolore dimenticato e il loro ruolo di attrici di pace, perché avevano mantenuto i legami al di là delle divisioni politiche e religiose. I frutti del Tribunale di Sarajevo, che si è tenuto dal 7 al 10 maggio 2015, si sono visti negli anni con la perdurante sorellanza fra serbe e bosniache, slovene e kosovare.
Anna Valente, delle Donne in Nero in Italia, lo ricorda così: «Quando si incontravano bevevano caffè, mangiavano e cantavano insieme; la realtà era che sentivano la nostalgia per la vicina di casa che avevano perduto per colpa di una politica di odio e separazione che nessuna di loro capiva».
«Prigione femminile dal 1730, la Torre di Costanza in Francia ospitò 88 donne colpevoli di non voler abbandonare la fede protestante. Marie Durand, incarcerata nella Torre per 38 anni, incise o fece incidere la parola résister, resistere».