
Due Stati, una casa
Intervista all’avvocata May Pundak che si batte per la pace in Medioriente
È in distribuzione insieme al settimanale Riforma il notiziario della Fdei, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Qui di seguito l’articolo di apertura curato dalla presidente Fdei, la pastora Mirella Manocchio.
La situazione in Medioriente non cessa di essere incandescente e le notizie che giungono dalla Striscia di Gaza sono sempre più tragiche, mentre 50 ostaggi israeliani rimangono ancora nelle mani di Hamas. La possibilità di una pace giusta e di avere due stati, israeliano e palestinese, indipendenti e riconosciuti sembra allontanarsi. Eppure vi sono tante persone che si impegnano e lottano perché tale possibilità non si spenga; tra queste tre donne straordinarie – Mika Almong, May Pundak e Maya Savir – che sono tra le principali organizzatrici del People’s Peace Summit tenutosi a Gerusalemme l’8 e il 9 maggio scorsi. Abbiamo raggiunto telefonicamente May Pundak, avvocata e codirettora dell’organizzazione israelo-palestinese A Land for All- Two States, One Homeland, nonché figlia del giornalista e storico Ron che ebbe un ruolo importante negli accordi di Oslo del 1993, per capire le ragioni del suo impegno e della visione politica che prospetta la sua organizzazione.
– Chi è May Pundak? Qual è la sua storia?
«Mi chiamo May Pundak. Attualmente vivo a Jaffa, vicino a Tel Aviv, una città originariamente palestinese con una minoranza ebraica, mentre oggi è a maggioranza ebraica. Ho due figli, ed entrambi frequentano scuole bilingue, in cui si parla arabo ed ebraico.
Mi sono unita all’organizzazione “A Land for All” dopo molti anni di attivismo, principalmente nell’ambito della giustizia sociale e dei diritti umani(…). Dopo alcuni anni di impegno, mi sono resa conto che sia il lavoro contro l’occupazione sia il processo di pace erano bloccati e che per cambiare qualcosa era necessario (…) concentrarmi su me stessa in quanto israeliana per sperare di vedere un movimento anche nella società.
Purtroppo, ho capito che la soluzione dei due popoli – due stati, nella quale mi ero impegnata e con la quale sono cresciuta difendendola e sostenendola, si è allontanata dalla realtà: sempre meno possibile e poco rappresentativa della situazione attuale della maggior parte degli israeliani e dei palestinesi. (…) se lavoriamo e pensiamo separatamente, capiremo sempre il 50% del problema e avremo il 50% della soluzione. Ma se lavoriamo insieme, se esprimiamo insieme i problemi e le sfide, se comprendiamo i bisogni, le esigenze psicologiche e fisiche di entrambe le parti, potremo dar vita a qualcosa che potrebbe davvero funzionare.
E così questa organizzazione mi ha dato molta speranza negli ultimi anni».
– “A Land for All”. Qual è il suo focus? Come è composta?
“Uno dei punti di forza di “A Land for All” è proprio la sua gente: un gruppo di persone incredibile! Ne fanno parte israeliani e palestinesi da Israele e dalla diaspora, come rifugiati palestinesi ed ebrei americani: bisogna tenere conto che i nostri sono popoli molto diversificati e complessi. (…) questa è probabilmente la visione politica più inclusiva che esista oggi, perché è stata creata da un gruppo di persone molto differenti tra loro che hanno imparato dagli errori del passato.
Il fatto che non partiamo solo dal diritto internazionale, ma anche dalla tradizione, dall’appartenenza, dall’attaccamento alla patria, l’aspetto più emotivo che è sempre stato trascurato, è un’altra lezione che viene dal passato. Non si può trascurare, dimenticare o agire come se le forti emozioni di israeliani e palestinesi verso la nostra terra nella sua interezza non siano cruciali da affrontare [è da tener conto che israeliani e palestinesi sono sempre più interdipendenti e vivono tra loro mescolati. Il 20% della popolazione di Israele è di origine palestinese, mentre nei Territori ci sono oltre 700mila israeliani, ndr].
Ad esempio, i palestinesi sentono un forte legame con le città di Jaffa, Haifa, Akka e Led, e gli ebrei invece lo avvertono verso Shiloh e Hebron, e questo è qualcosa che dobbiamo affrontare insieme. Credo che questo sia l’altro punto di forza di “A Land for All”».
– Come viene percepita in Israele la situazione a Gaza e in Cisgiordania?
«Non ci sono parole per descrivere la situazione a Gaza e, in generale, la situazione contro il popolo palestinese. Quella in Cisgiordania non è come voi immaginate, infatti è incredibilmente orribile. Città come Tulkarem e Janin sono davvero in rovina.
La situazione a Gaza non è solo una crisi umanitaria, ma si sono fatti crimini e atrocità che mi tolgono il sonno. (…) provo un’immensa vergogna e un forte senso di responsabilità per il fatto che il governo israeliano stia distruggendo Gaza e in un certo senso stia cercando di distruggere l’idea stessa di popolo palestinese. Il fatto che la società israeliana sia così complice è semplicemente inimmaginabile per me. Credo sia importante dire, allo stesso tempo, che noi tutti, il popolo israeliano, siamo un popolo profondamente traumatizzato e non è da sorprendersi che
dopo gli eventi del 7 ottobre la società israeliana sia diventata sempre più radicale, xenofoba e razzista. (…) Eppure, anche i numeri dei sondaggi, mostrano (…) pure che sta diventando sempre più favorevole a un accordo di sicurezza regionale che includa uno Stato sovrano palestinese. E questo è qualcosa su cui possiamo lavorare. (…) gli israeliani pensavano di non dover risolvere questo conflitto. Non era all’ordine del giorno. Sono orgogliosa che siano state proprio le cosiddette forze radicali e impegnate a stabilire l’agenda. Ora è sul tavolo. Voglio pregare che questo
ci insegni a comprendere che se non risolviamo questo conflitto, sarà lui a risolve- re noi. Penso che sempre più israeliani lo stiano capendo».
– Quale forza trainante vi ha spinto a organizzare la manifestazione dell’8 e 9 maggio a Gerusalemme?
«Si collega alla mia risposta precedente. Abbiamo bisogno di una nuova narrativa in Israele.
Credo che il fatto che questo governo non abbia dato priorità al rilascio degli ostaggi sia un segno della sua incapacità, della sua forza distruttiva e disumanizzante verso tutti. Il governo ha cercato di emarginare le famiglie degli ostaggi anche perché consapevole che l’interesse del rilascio era in linea con la fine della guerra, in linea con l’essere semplicemente umani. (…) Quindi, quello che stiamo cercando di fare in Israele è creare una narrazione alternativa e mantenerla viva; essere sicuri di creare una versione alternativa in cui gli israeliani che lottano per la propria vita e per il proprio futuro, non lo debbano fare a scapito di altri, insomma non vivere con l’idea che dobbiamo annientare un altro popolo per sopravvivere. Semmai è il contrario.(…) Dobbiamo presentare un’alternativa che affermi che la pace è l’unica garanzia che abbiamo per la sicurezza. E dobbiamo fare in modo che l’interesse a porre fine alla guerra e raggiungere la pace sia l’interesse della società israeliana».