Nell’emergenza cerchiamo di fare il meglio
L’ondata di calore, la letteratura fantascientifica, il ricordo della pandemia: i rischi sociali nelle situazioni estreme
Se incontrate qualcuno che fa discorsi sconnessi, specialmente se anziano, chiamate subito un numero di soccorso: suona più o meno così un appello ricorrente sulle emittenti in streaming di Radiofrance. Fra Deserto d’acqua e Vento dal nulla, nei paesaggi “apocalittici” tratteggiati nel periodo 1950-1970 da alcuni classici della fantascienza (in questo caso James G. Ballard) troviamo inquietanti analogie con la realtà di oggi. Il mutamento climatico, in buona parte dovuto a nostre pesanti responsabilità, si traduce non solo nei dati evidenziati dalla ricerca scientifica; non solo in fenomeni verificabili a occhio nudo da un anno all’altro, come il progressivo ritirarsi dei ghiacciai, ma si ripercuote anche su popoli e città con conseguenze non futuribili bensì immediate: ultima in ordine di tempo l’ondata di calore che percorre l’Europa, e che sembra accanirsi soprattutto sulle città. Bollettini quotidiani, cifre allarmanti, blackout energetici e ulteriori affollamenti ai Pronto soccorso.
Alcune chiese protestanti francesi, i cui templi sono chiusi durante la settimana, hanno pensato di aprirli nelle ore più calde: più sono antichi, più i muri spessi mantengono una relativa frescura. Questo è anche un periodo di vacanze (per chi può), e allora tanto vale aprire i luoghi di culto accogliendo i visitatori. Ma il quadro che si sta delineando è di forte sofferenza, e assomiglia da vicino anche a certi episodi del passato, le epidemie, le pestilenze: alcune avvisaglie, i primi segnali, alcuni allarmi poi ridimensionati, le prime vittime inizialmente tenute nascoste, e i periodici bilanci. La peste è stata oggetto di tante narrazioni, da Tucidide a Boccaccio, dai Promessi sposi a Albert Camus, tanto che un filosofo studioso di letteratura, Sergio Givone, le ha dedicato un importante libro (Metafisica della peste, Einaudi, 2012): perché le grandi epidemie, proprio come le catastrofi di Ballard, mettono in luce i punti deboli della società. Vale anche per le emergenze climatiche. Con una differenza e qualche analogia.
La differenza. Nei secoli passati si tendeva a ricondurre la pestilenza a un castigo divino: ci siamo comportati male, e Dio ci punisce. Allora, per contenere la punizione di Dio, era usanza trovare qualcuno che pagasse per tutti: niente di meglio che una strega, da bruciar viva nella speranza di metter fine alla sciagura. Sappiamo – almeno per chi è credente – che non è così, per due motivi: intanto perché, stando alla Bibbia, se Dio intende punire l’umanità colpevole di infedeltà, lo dice (Genesi 6). Dio non si nasconde dietro le catastrofi. E poi, come si diceva, buona parte delle degenerazioni ambientali a cui stiamo andando incontro, sono dovute a nostre scelte nefaste, e ogni tanto qualche nazione fa un coraggioso salto di qualità, riprogrammando le proprie strategie energetiche, come recentemente l’Irlanda.
Fin qui, dunque, la differenza. Quali, allora, le analogie con questi eventi del passato e con le narrazioni della fantascienza “apocalittica”? Le analogie stanno nelle conseguenze di quegli eventi, e nelle reazioni che vengono a prodursi fra le persone. Per dirla in breve: se scoppia un’ondata di calore, o una grave epidemia, o peggio, una pandemia come abbiamo visto poco tempo fa, si accentuano alcuni fenomeni, che possiamo riassumere così: chi è solo, è destinato a essere più solo di prima; chi è fragile, diventa più fragile; chi sta relativamente meglio di altri può diventare più egoista. Chi è sfruttato, rischia di essere ancora più sfruttato: per fortuna, ditte di consegne a domicilio hanno rinunciato a riconoscere un bonus a quei rider che avessero accettato di esporsi nelle ore più calde; ma intanto un camionista è morto con temperatura corporea di 41°, un operaio è morto lavorando alla manutenzione della rete ferroviaria.
Contro una società che, di fronte all’emergenza, per sopravvivere si rinchiude negli egoismi dell’“ognun per sé e tutti contro tutti” (un ambiente in cui si afferma «la moltiplicazione sfrenata e demente degli atteggiamenti compulsivi», scrive Givone) si lancia Camus in quel romanzo – La peste (1947) – che negli anni del Covid ha conosciuto una lunga serie di ristampe e nuove edizioni. Vi si scontrano i modi di pensare della chiesa e della scienza: ma prevale il senso di umanità comune, l’appartenenza a una collettività ferita e sofferente, che fa sì che, per lo meno, si cerchi di dare una parola di conforto a chi è più esposto a circostanze più forti di noi, qualunque sia la loro causa. Niente come la peste – o la pandemia o certe catastrofi ambientali – riporta l’umanità «presso di sé, cioè al suo fondamento naturale». Qui l’umanità «dà il peggio e il meglio di sé». Ragionando, inventando, consolando chi è costretto all’isolamento: come hanno fatto quei pastori che andavano a trovare le persone anziane prive di Internet, durante il lockdown del Covid, suonando loro il campanello, parlando loro e ascoltandole. I modi sono tanti, non rinunciamo a cercare di migliorarci.