La politica del risentimento

«Negli Usa guidati da Trump il fatto che si sia deciso di colpire università e migranti, nel concreto non cambia le difficili condizioni di vita di chi lavora in fabbrica nell’Ohio». La nostra intervista ad Alessandro Portelli

 

In camicia, gilet e cravatta con 35°-40° sotto i riflettori del palco di San Siro, Bruce Springsteen interrompe il concerto per lasciare spazio alle parole e rivolgendosi ai 60.000 mila fan e (l’alluvione in Texas con il tragico bilancio di morti sarebbe arrivata tre giorni dopo, il 6 luglio) lancia parole emotive, politiche: «In America, casa mia, stanno perseguitando le persone che utilizzano la loro libertà di parola per dar voce al dissenso. Questo sta succedendo adesso. Donald Trump irrompe nella politica americana con i suoi abusi, ma l’America saprà sopravvivere». Per parlare di Stati Uniti dal punto di vista politico e culturale ci siamo rivolti ad Alessandro Portelli, critico musicale e storico, già professore di Letteratura angloamericana all’Università La Sapienza.

 

«Springsteen nel corso della sua carriera ha fatto un percorso politico straordinario, radicale – ci dice Portelli –. Il suo linguaggio e le sue radici sono le stesse di chi oggi esprime un maggior consenso a Trump. Springsteen, di fatto, è uno dei pochi artisti – intellettuali – che può rivolgersi direttamente agli elettori di Trump e a quella classe operaia alienata e imbufalita e che oggi vede in Trump una risposta alle proprie esigenze e frustrazioni. Certo, non sempre i suoi messaggi politici arrivano a tutto il pubblico che lo segue, ma qualcosa resta. Come è successo a Trump, che dopo il primo live a Liverpool del boss, ha detto che lo attende in patria».

 

– Trump – denuncia l’artista – attacca la libertà di parola, diritto fondamentale sancito nel primo emendamento della Costituzione…

«Spesso si tende a considerare la Costituzione americana come garante dei diritti di tutti, ma gli stessi diritti li ritroviamo, a esempio, nella nostra Costituzione e così in Francia. La Costituzione americana del 1789 non è l’unica a contenere quei famosi pesi e contrappesi, checks and balances, dirimenti per una democrazia avanzata. Anzi, la Costituzione americana permette di potersi appellare a leggi emanate a fine Settecento e dunque può essere facilmente vulnerabile a impulsi autoritari e manipolatori».

 

– Può una democrazia muoversi con arroganza e forza?

«Sì, se la tendenza è mettere in crisi lo Stato di diritto. Un concetto che può permettere al Presidente americano, a esempio, di poter ignorare anche le sentenze di un tribunale. Tanto più se, come previsto costituzionalmente, controlla sia la Corte Suprema sia i due rami del Parlamento. Detto questo, viene da chiedersi se vi sia oggi un equilibrio democratico tra i poteri, proprio perché se l’ideologia riesce a scardinare paradigmi consolidati – come sta purtroppo avvenendo anche in altre parti del mondo – prevalgono solo gli atti di forza».

 

 

– Gli aspetti ideologici però sembrano avere la meglio, colpendo le università, gli studenti, gli intellettuali, i migranti…

«Vero, oggi vince la politica del risentimento. Il fatto che si sia deciso di colpire Harvard, la Columbia University, nel concreto non cambia le difficili condizioni di vita di chi lavora in fabbrica nell’Ohio. C’è un passaggio straordinario di Herman Melville in Moby Dick: quello di Starbuck, primo ufficiale, che pone una domanda pragmatica al Capitano Achab chiedendogli: “Quanto frutterà la caccia della balena bianca sul mercato?”. E Achab, respingendo un interesse per il guadagno materiale, gli risponde che la caccia a Moby Dick per lui è solo una questione di vendetta, non di lucro, di mera soddisfazione personale. Sostituire la dimensione emotiva a quella politica può portare danni alla collettività e al bene comune».

 

– Sta dicendo che le mosse di Trump sono dettate dall’umore personale e tese a rispondere solo al sentire collettivo?

«Sembrerebbe. Proprio come sta avvenendo in modo ingiustificato e ingiustificabile con gli attacchi rivolti agli immigrati e alle donne transgender. Mosse, queste, che rasentano la cattiveria e certamente non cristiane. Per questo molte chiese evangeliche storiche americane, si son dette contrarie alle azioni di Trump. L’attacco agli stranieri non è solo il sintomo di un nuovo razzismo ma è anche una cattiveria».

 

– E il fronte massiccio di cristianesimo che sostiene Trump?

«Oggi porta avanti una sola battaglia, quella contro l’aborto. Temi quali: la solidarietà, l’amore verso il prossimo, il sacrificio, la carità, sono per queste chiese pro-Trump questioni marginali e non affini al loro Vangelo della prosperità».

 

– Springsteen nelle sue canzoni parla spesso di speranza e di carità intrecciandole alla realtà sociale. Prima di lui, Bob Dylan e Joan Baez suscitavano movimenti e valori…

«Direi il contrario: erano i movimenti a suscitare i Dylan e le Baez. A partire dal movimento per i diritti civili, o dal movimento per la pace. Dagli anni 80 in poi vi è stato un progressivo decadimento di questi movimenti e, come sappiamo, dove si crea un vuoto c’è chi è disponibile a colmarlo, proprio come ha fatto il movimento di destra Tea Party, definito populista da molti, nato in concomitanza con l’amministrazione Bush e poi consolidatosi dopo l’elezione di Obama. E questo perché la sinistra liberal si era illusa che si potesse far politica solo attraverso i social media, ma non è così. Serve il contatto con gli elettori. Oggi, figure come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez tentano di ricreare un’opposizione culturale, morale, radicata nei valori fondanti degli Usa, incontrando nuovamente le persone, portandole in piazza com’è avvenuto recentemente con le contromanifestazioni dello scorso 4 luglio».

 

– Dunque, non ci sono solo le voci degli artisti a gridare nel deserto…

«Gli artisti sono importanti, sono influencer, messaggeri, ma spesso sono percepiti come élite, e nei loro confronti si muove anche una sorta di risentimento, di distanza, molto simile a quella rivolta agli intellettuali. Questo risentimento anti-elitario non denigra invece i ricchi, gli oligarchi, i potentati economici. La società non se la prende con il maschio ricco, non colpisce i miliardari, mentre paradossalmente colpisce più facilmente le persone colte, gli intellettuali, percepiti come persone capaci di poter giudicare un sentire comune. Il ricco, il multimiliardario, come Elon Musk, a esempio, rappresenta nell’immaginario collettivo ciò che si vorrebbe diventare, essere. Questi personaggi che detengono ricchezze infinite rappresentano in un certo senso quel sogno americano della prosperità».

 

– I montanari, i contadini, i minatori, insomma gli hillibilly e alcuni settori rappresentati anche da Springsteen, sono loro i vulnerabili rancorosi della società americana?

«In parte sì. Perché da sempre devono fare i conti con l’ancestrale e secolare senso di inferiorità: erano a esempio l’unico gruppo sociale nei cui confronti era possibile fare battute razziste, oggi sarebbe considerato politicamente scorretto. Persone che tra l’altro sono state storicamente all’avanguardia nel movimento sindacale. In campagna elettorale Trump diceva: “Io sono uno di voi”, e loro hanno apprezzato il fatto che lui li vedesse: per la prima volta si sono sentiti considerati come una parte sociale, come zona geografica e politica».